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Non puoi evitare il cambiamento climatico (ma puoi limitare i danni)

Di Francesco D'Isa • novembre 28, 2019

Più o meno nell’anno in cui sono venuto al mondo, il 1980, alcune persone hanno deciso che era meglio procurare dei danni catastrofici a tutti coloro che sarebbero nati da lì in avanti piuttosto che tollerare un abbassamento del proprio stile di vita. Queste persone, molte delle quali sono ancora in vita, hanno destinato le attuali e future generazioni a fame, guerre ed epidemie. Nel peggiore dei casi, i loro atti porteranno all’estinzione della nostra specie, nel migliore, a quella di innumerevoli specie animali e vegetali. Questi uomini e donne però non erano dei mostri, anzi, in larga parte si trattava di persone normali – e lo so con certezza perché sono un ex fumatore.

Mi spiego meglio. Anzitutto le persone a cui mi riferisco sono tutti coloro che, già a fine degli anni ‘70, sapevano che l’innalzamento di CO2 nell’atmosfera avrebbe portato un pericoloso surriscaldamento del pianeta. Lo scrittore William T. Vollman scrive in No Immediate Danger, primo volume di Carbon Ideologies, che i nostri padri (o più presumibilmente i loro capi) si tranquillizzavano dicendosi che "l'uso dei combustibili fossili non avrebbe causato mutamenti climatici sostanziali in questo secolo [lo scorso secolo]" e che "per il momento, continueremo a utilizzare combustibili fossili mentre si studiano le potenziali conseguenze del problema". Come conclude Vollmann, i ricercatori hanno continuato a investigare finché, ops, sono morti. Ora spetta a noi affrontare il problema cui si sono dedicati con tanta cura – ma prima di addentrarci nel mondo che ci hanno lasciato, voglio spiegare perché non provo rancore nei loro confronti. E per farlo parlerò di sigarette.

No Immediate Danger di William T. Vollmann

"The most honest book about climate change yet.” —The Atlantic

A timely, eye-opening book about climate change and energy generation that focuses on the consequences of nuclear power production, from award-winning author William T. Vollmann

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Ho iniziato a fumare quando avevo sedici anni. I motivi che mi hanno spinto a questa scelta erano quelli di chiunque altro: a fumare erano gli adulti, qualche personaggio famoso e i coetanei più smaliziati. Ero un ragazzino timido, tormentato dai primi (frustratissimi) desideri e ricorrere alla magia omeopatica (“fai quello che fanno e diventa come loro”) era un trabocchetto allettante. Ovviamente ero consapevole che fumare danneggiasse gravemente la salute – lo diceva una grossa scritta su ogni pacchetto – ma in una fase della vita in cui un giorno vale come un anno il mio cancro era a millenni di distanza. Col tempo, assieme all’adolescenza è scomparsa anche questa dilatazione temporale, ma la dipendenza da nicotina aveva ormai sostituito la volontà. Faccio un passo indietro: per quanto sembri assurdo, fino agli anni ‘60-’70 era opinione diffusa che il fumo non facesse male alla salute. Ficcare nubi di erba bruciata in fondo ai polmoni era considerata una cosa giusta e sana. Le ricerche scientifiche a discredito di questa idiozia erano emerse già a partire dagli anni ‘50, ma la potente industria del tabacco riuscì per più di un decennio a nascondere l’ovvio. Con gli anni e l’accumularsi delle prove le dichiarazioni della Big Tobacco sono diventate ridicole, così come è accaduto coi vari negazionismi climatici. D’altra parte ci vogliono decenni per sviluppare un tumore da tabacco e inizialmente era impossibile avere una prova certa della correlazione fumo-cancro. L’unico modo per convalidare una previsione con certezza è aspettare che se si avveri – e alla fine la profezia si è avverata, con milioni di morti a dare conferma. Come molti miei coetanei, sapevo che il fumo alle lunghe mi avrebbe fatto venire un tumore, eppure ho continuato a fumare fino a cinque anni fa. Mi si potrebbe dare semplicemente dell’imbecille, ma questa forma di idiozia è comune a gran parte della nostra specie, tanto che in psicologia ha persino un nome, scope neglect – in breve, significa che la nostra mente non è fatta per valutare i grandi numeri. Ricorda la celebre frase di Stalin: «Una morte è una tragedia, un milione di morti è statistica». Una citazione falsa, perché fu messa in bocca al dittatore allo scopo di farlo sembrare ancor più crudele (ironia vuole che il presidente americano J.F Kennedy la fece sua nel 1961, con una lieve modifica). Ma in parte è vera, perché la nostra mente funziona esattamente così.

In modo analogo, un rischio in un futuro lontano fa meno paura di uno imminente. Si può mettere alla prova anche subito: supponi che ti venga detto che domani dovrai subire una dolorosa operazione chirugica. Prova ad assaporare l’effetto di questa notizia. Bene, adesso pensa che ti richiami il medico per dirti che c’è stato un errore: dovrai sempre fare la dolorosa operazione, ma tra vent’anni. Immagino il tuo sospiro di sollievo, eppure il dolore è lo stesso, solo più in là nel tempo. Ma non hai tutti i torti: tra vent’anni sarai ancora in vita? E se sì, la persona che diventerai quanto ti somiglierà? Pensa alla persona che eri un ventennio fa, a quanto è diversa da chi sei ora... è persino possibile che oggi tu conosca qualche persona che è più simile a come sei adesso rispetto a chi eri venti anni fa. L’identità è, a detta di molti filosofi, una persistente illusione, e il suo carattere effimero si fa più evidente nei lunghi intervalli di tempo. Detto questo, il problema dell’esperimento mentale rimane: c’è un pacco di sofferenza in arrivo tra vent’anni e qualcuno se lo dovrà accollare.

Il motivo per cui ho tirato in ballo le sigarette è abbastanza ovvio. I nostri incauti genitori non ci hanno ignorato per cattiveria, ma per il semplice fatto che, come noi, sono animali imperfetti, in balia di tare mentali inadeguate alle attuali potenzialità umane. È la stessa ristrettezza mentale che ha impedito (e impedisce) a gran parte di noi di prendere in considerazione il pericolo nelle sue reali proporzioni. Non si tratta di un atteggiamento nuovo alla storia; Bruno Latour lo paragona all’inconsapevolezza con cui gli europei si consegnarono alla guerra nel 1914, mentre Luca Mercalli descrive la situazione con chiarezza in Prepariamoci:

"Oggi abbiamo una Terra con sette miliardi di individui, dilaniati da disparità intollerabili, che con ogni loro bisogno e ogni loro scelta di consumo incidono sul clima, sull’acqua, sulla salute, sulla produzione di scorie e rifiuti di durata plurimillenaria, sulla disponibilità di cibo e materie prime, per se stessi e per tutte le generazioni future. Abbiamo una tecnologia che non è mai stata così potente, ma è un’arma a doppio taglio. Abbiamo un mondo estremamente complesso, ma pure fragile. Abbiamo un’economia basata su un’impossibile crescita infinita, alla quale però obbediamo stoltamente come a una religione".

Smettere di fumare non è facile e sin dalla rivoluzione industriale la tecnologia è il vizio dell’Occidente. Un vizio che ha contaminato il resto del globo – vuoi per il fumo passivo, vuoi perché tutti hanno cominciato a fumare – e adesso arriva il conto. La diagnosi è chiara, il mondo ha un tumore. Bisogna capire se è curabile.

Prepariamoci di Luca Mercalli

Mai tante crisi tutte insieme: clima, ambiente, energia, risorse naturali, cibo, rifiuti, economia. Eppure la minaccia della catastrofe non fa paura a nessuno. Come fare? Ci vuole una nuova intelligenza collettiva. Stop a dibattiti tra politici disinformati o in conflitto d’interessi. Se aspettiamo loro sarà troppo tardi, se ci arrangiamo da soli sarà troppo poco, ma se lavoriamo insieme possiamo davvero cambiare.

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Recentemente leggo molti libri sul cambiamento climatico per via di un saggio che sto scrivendo per una futura pubblicazione con effequ (Trilogia della catastrofe, in uscita ad aprile) ma la bibliografia scientifica è davvero sterminata. Le voci sono molte e contrastanti, ma su una cosa abbiamo quasi raggiunto un accordo: il surriscaldamento globale esiste, è causa dell’uomo e rappresenta un serio pericolo. Questo non lo nega più nessuno, giusto una manciata di magnati del petrolio o Donald Trump – che comunque voleva comprare la Groenlandia, che non si sa mai. Il dibattito verte più attorno a quanto sia una cosa cattiva, come e quando si manifesterà e cosa (e se) è possibile fare per limitare i danni. A questo proposito i pareri sfumano dal nero di un pessimismo assoluto al grigio di un moderato ottimismo – o moderato pessimismo, dato che anche i migliori scenari restano orribili.

L’idea che mi sono fatto in merito è abbastanza semplice ed ha a che fare coi cigni neri. Quest’ultimo è un termine coniato da Giovenale e ripreso più di recente da Nassim Nicholas Taleb per indicare un evento di grande impatto, difficile da prevedere e molto raro, che col solo accadere rivoluziona la realtà abituale – come l’idea che “tutti i cigni sono bianchi”. La caduta di un gigantesco asteroide, un’invasione aliena o la scoperta del fuoco sono tutti esempi di cigni neri. Ognuno di essi è una piccola apocalisse, perché sebbene non se ne possa prevedere né il volto né la data, sappiamo che quando avviene cambia radicalmente il mondo. L’idea alla base è semplice: il fatto che “ogni cigno è bianco” è una regola valida solo finché non appare un cigno nero. Taleb parte dall’idea del tacchino induttivista di Bertrand Russell: un pennuto che ogni mattina viene nutrito da un contadino ne farà una regola, che verrà disillusa il giorno in cui sarà sgozzato per la Festa del ringraziamento.

Il surriscaldamento globale è un processo lineare, che senza dubbio non porterà a nulla di buono. A renderlo imprevedibile però è soprattutto il fatto che può innescare qualche cigno nero – anzi, uno stormo di cigni neri. In Global Catastrophic Risks David Frame e Myles R. Allen stilano un catalogo di cigni chiaro e approfondito, che vanno dal rilascio improvviso di metano da parte degli oceani o dai ghiacciai sciolti, passando per la morte delle foreste tropicali e l’acidificazione dei mari. Tutti fenomeni che potrebbero trasformare la situazione da “pessima” in “disastrosa” in un breve quanto improvviso lasso di tempo. Di tali eventi sappiamo solo che sono possibili, ma non abbiamo dati sufficienti per stabilire quanto siano probabili; potrebbero essere dietro l’angolo come non verificarsi mai.

Ho parlato di cigni neri, dunque mi permetto di riassumere con un’altra metafora ornitologica. Immagina di passeggiare lungo un viale cittadino, finché – plaf! – ti cade una cacca di piccione in testa. Mentre maledici il volatile e cerchi di pulirti la testa con un fazzoletto, osservi il marciapiede sotto i tuoi piedi e scopri che è interamente ricoperto di guano. Alzi la testa e noti decine di nidi abbarbicati a una grondaia, una facile spiegazione della cacca in testa. Sai che quando si cammina all’aperto è possibile prendersene una, ma è di certo più probabile in una zona come questa. In un certo senso il guano per terra era una “nube di probabilità” che poteva avvisarti sulla possibile defecazione. Ecco, il cambiamento climatico è simile: stiamo attraversando una brutta nube di probabilità (o un lago di merda, se preferisci) e non sappiamo se riusciremo o meno a evitare un’enorme cacca in testa. Più no che sì, sembrerebbe.

Un’orribile notizia pende sulla nostra testa e siamo persino più sfortunati di Damocle, cui il tiranno di Siracusa fece sistemare sopra il capo una spada sorretta da un’esile crine di cavallo. A sua differenza, infatti, non solo ignoriamo quando cadrà la spada, ma anche la sua dimensione. Deep adaptation, uno studio del sociologo Jem Bendell celebre per aver fatto “impazzire” alcuni degli scienziati che lo hanno letto, propone uno scenario molto cupo:

Non sappiamo con certezza quanto possano essere dirompenti gli impatti del cambiamento climatico o dove saranno maggiori gli effetti, soprattutto perché non è possibile sapere come risponderanno i sistemi economici e sociali. Tuttavia, stanno aumentando le prove del fatto che gli impatti saranno catastrofici per i nostri mezzi di sostentamento e per le società in cui viviamo. Le norme di comportamento che noi chiamiamo la nostra "civilizzazione" potrebbero anche deteriorarsi. Quando contempliamo questa possibilità ciò può apparire astratto. Le parole con cui ho concluso il paragrafo precedente possono sembrare che descrivano, almeno inconsciamente, una situazione di cui dispiacersi guardando un notiziario in TV o online, ma quando parlo di fame, distruzione, migrazione, malattia e guerra intendo situazioni che incomberanno nella vostra stessa vita. Senza energia a disposizione presto non si avrà più acqua che uscirà dai nostri rubinetti, si dipenderà dai nostri vicini per il cibo e per un po’ di calore, la malnutrizione dilagherà, ci sarà incertezza sul restare o fuggire e si avrà paura di essere uccisi violentemente ancor prima di morire di fame.

La grande cecità di Amitav Ghosh

Nei primi anni del XXI secolo Amitav Ghosh lavorava alla stesura de Il paese delle maree, il romanzo che si svolge nelle Sundarban, l'immenso arcipelago di isole che si stende fra il mare e le pianure del Bengala. Occupandosi della grande foresta di mangrovie che le ricopre, Ghosh scoprì che i mutamenti geologici che ciclicamente vi avvenivano un argine poteva sparire nell'arco di una notte, trascinando con sé case e persone stavano diventando qualcos'altro: un cambiamento irreversibile, il segno di un inarrestabile ritrarsi delle linee costiere e di una continua infiltrazione di acque saline su terre coltivate.

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Una spada enorme, ma Bendell non è l’unico a pensarla così. Anche nel passato più remoto possiamo trovare indizi del nostro futuro, come scrive Amitav Ghosh in La grande cecità, dove descrive la condizione di rifugiati ambientali dei propri antenati. Jared Diamond propone qualcosa di simile in Collasso: Come le società scelgono di morire o vivere. In questo lungo saggio, l’autore prende in analisi i crolli di antiche e recenti civiltà per individuare cinque cause comuni: i mutamenti ambientali, i cambiamenti climatici, l’aumento di vicini ostili, la diminuzione di partner commerciali e delle strategie di intervento inadeguate. Il legame tra cambiamento climatico e crolli sociali è, a suo parere, molto evidente anche adesso:

"Si interroghi prima un qualche ecologo o geografo che, nella sua torre d’avorio, sa tutto sull’ambiente ma non legge mai i giornali e non sa nulla di politica, e gli si chieda di fare un elenco di luoghi colpiti da gravi problemi ambientali e/o demografici. Verrebbero fuori senz’altro l’Afghanistan, il Bangladesh, il Burundi, Haiti, l’Indonesia, l’Iraq, il Madagascar, la Mongolia, il Nepal, il Pakistan, le Filippine, il Ruanda, le isole Salomone, la Somalia... Poi si passi a un uomo politico esperto di problemi mondiali, ma del tutto disinteressato all’ambiente, e gli si chieda di nominare i posti critici del mondo, paesi con guerre civili o colpi di stato in atto, o paesi che, come conseguenza dei loro problemi, stanno creando guai anche ai ricchi paesi del Primo Mondo, che devono inviare aiuti in continuazione o affrontare ondate migratorie. L’elenco dovrebbe sicuramente comprendere l’Afghanistan, il Bangladesh, il Burundi, Haiti, l’Indonesia, l’Iraq, il Madagascar, la Mongolia, il Nepal, il Pakistan, le Filippine, il Ruanda, le isole Salomone, la Somalia..."

I paesi sono gli stessi e la connessione è chiara: gli stessi problemi che afflissero gli antichi maya e gli anasazi si stanno facendo sentire nel mondo moderno. Oggi, proprio come in passato, i paesi che hanno distrutto il loro ambiente e/o che sono sovrappopolati sono esposti al rischio di sconvolgimenti politici.

È dunque inutile chiedersi se avverrà il cambiamento climatico, perché di fatto è già accaduto.

Quanto alle soluzioni, ancora una volta non ci sono buone notizie. Qualche decennio fa, forse, era possibile limitare i danni con degli interventi ragionevoli, ma il problema è proprio qui: ragionevoli, e noi non lo siamo. La metto giù nel modo più diretto possibile: uno stile di vita improntato sul consumo esponenziale da parte di un numero sempre crescente di persone in un ambiente con risorse limitate è un’idea cretina. Non ci vogliono ricerche scientifiche per scoprirlo, basta un problemino di matematica: ho cento mele e due persone, ogni persona ne mangia una il primo giorno, due il secondo, tre il terzo e così via; inoltre ogni giorno nasce una persona in più. Le mele basteranno? No, non basteranno affatto, neanche se fossero diecimila, o un milione – e tutto ciò senza neanche prendere in considerazione l’iniquità della distribuzione dei beni. È una risposta ragionevole, com’era ragionevole il consiglio di mangiare meno mele, distribuirle più equamente e fare meno figli, ma l’essere umano non riesce a seguire la propria ragione fino in fondo, soprattutto quando questa non è in accordo coi propri istinti e sentimenti. Purtroppo spesso accogliamo l’aiuto della riflessione soltanto per assecondare il nostro egoismo; considerati come specie, siamo degli animali difettosi, con un’intelligenza sufficiente a surclassare in potenza qualunque altro essere vivente, ma incapaci nel calibrare i nostri scopi e desideri. È probabile che anche una razza super intelligente di leoni, lepri, delfini o manguste non si sarebbe comportata meglio, considerata la comunanza di ambizioni nel regno animale, ma nessuno di loro ha imparato a parlare, costruire armi, utensili e centrali nucleari, quindi i cattivi siamo noi.

Non c’è da stupirsi dunque se in passato nessuno si sia mosso come doveva, ma che dire di adesso? Ora che i segni sono evidenti e la paura si avvicina, è possibile fare qualcosa? Bè, forse no. È troppo tardi per sostituire le nostre fonti di energia con altre che producono meno CO2. Le energie rinnovabili non sono sufficienti ma soprattutto non possono essere accumulate, lasciandoci scoperti in caso di un calo di vento o brutto tempo. Quelle nucleari invece presentano altri problemi, legati allo smaltimento di rifiuti – e non basterebbero comunque, perché dovremmo costruirne dodicimila in pochi anni per sopperire al consumo attuale.

Come saremo di Telmo Pievani, Luca De Biase

Cambiamento climatico. Instabilità finanziaria. Migrazioni. Disuguaglianze. Accelerazione digitale e lentezza politica. Le grandi trasformazioni in corso irrompono nel dibattito di ogni giorno con le loro imprevedibilità e il loro fascino. Ma perché è tanto importante discutere di futuro e di innovazione? Cosa possiamo fare dinanzi a sfide mai affrontate prima da Homo sapiens?

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Insomma, se prima riparare le cose era difficile, adesso è quasi impossibile. C’è chi come ultima speranza si appella alla stessa tecnologia che ci ha portato al disastro – il dio che ha ordinato il diluvio ci darà l’ombrello – e auspica degli interventi di geoingegneria. Tecnicamente l’unico realizzabile consiste nello sparare zolfo nell’atmosfera per riflettere i raggi solari e ridurre la temperatura, ma non sappiamo quali sarebbero le conseguenze in un sistema imprevedibile come il clima e potrebbe persino peggiorare le cose. Inoltre si tratta solo di un’aspirina, che allevia i sintomi ma non cura la malattia. Dopo un po’, infatti, lo zolfo precipiterebbe sul suolo (non si sa con quali effetti) e il problema tornerebbe.

Tanto vale smettere di illudersi e pensare a come limitare i danni, come suggerito di recente da Jonathan Franzen sul New Yorker. Intendiamoci, questo non toglie nulla all’importanza dell’impegno sulla riduzione di CO2 nell’atmosfera: i molti interventi proposti da Telmo Pievani (Come saremo), Luca Mercalli (Prepariamoci) e mille altri andrebbero seguiti alla lettera. Le catastrofi non sono tutte uguali e se è possibile mitigare anche di poco l’entità di un disastro, credo che abbiamo il dovere morale di agire in tale direzione – ma lasciamo perdere la morale, è banalmente la cosa migliore da fare.

Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere di Jared Diamond

Più di mille anni fa alcuni Vichinghi, guidati da Erik il Rosso, partirono dalla Norvegia e si stabilirono in Groenlandia. Lí fondarono colonie, dissodarono la terra, allevarono animali e costruirono chiese fantastiche. Perché quasi cinque secoli dopo se ne persero le tracce? E perché sparirono molti altri popoli del mondo? Lo spettacolo delle rovine delle antiche civiltà ha in sé qualcosa di tragico. Popoli un tempo ricchi e potenti sono scomparsi, magari nel volgere di pochi anni, lasciando come testimonianza solo qualche romantico masso sparso nella giungla. In questo saggio Diamond cerca di capire come i collassi del passato abbiano potuto verificarsi, e si chiede se la società contemporanea sia in grado di imparare la lezione, evitando disastri analoghi nel futuro.

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Francesco D’Isa (Firenze, 1980), di formazione filosofo e artista visivo, dopo l’esordio con I.(Nottetempo, 2011), ha pubblicato romanzi come Anna (effequ 2014), Ultimo piano (Imprimatur 2015), La Stanza di Therese (Tunué, 2017) e saggi per Hoepli e Newton Compton. Direttore editoriale dell’Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste.

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