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Lessico Ginzburg

Di Claudia Pozzo • ottobre 05, 2021

Una donna deve scrivere come una donna, però con le qualità di uomo.

Natalia Levi, al secolo Natalia Ginzburg, odiava i sentimentalismi, eppure, lo racconta lei stessa, per evitare di caderci dentro aveva bisogno di uno sguardo maschile, di un occhio lucido che vegliasse su di lei.

Trovò quello sguardo in Leone Ginzburg.

Leone era amico di suo fratello Mario e aveva sette anni più di lei.

Nel 1934, quando si incontrano, lei ha diciassette anni, la bocciano a tutte le sessioni d’esame in matematica e invece di studiare scrive racconti che fa leggere soltanto a suo fratello Mario.

Leone si presta ad aiutarla a pubblicare, anzi, scrive immediatamente ad Alberto Carocci direttore di Solaria, la rivista culturale più importante in quegli anni, che quei racconti “denotano una maturità artistica, una concretezza di invenzione, una capacità di distacco e insieme un’umanità certo notevolissimi.”

Natalia è stupefatta e felice quando Carocci, nel giugno 1934 decide di pubblicare un suo racconto. Il racconto s’intitola Bambini.

Nel frattempo, con la scusa di Mario, Leone entra ed esce continuamente da casa sua. Ci mette poco a conquistarsi la stima di tutta la famiglia Levi.

Lidia, la madre, dice che quel ragazzo ha un’ intelligenza fuori del comune, anche il padre lo pensa ma, pur di far polemica sugli amici dei figli, ribatte che sì, sarà anche intelligente, ma è brutto.

Natalia non si pronuncia, capisce che Leone la corteggia, ma si è fatta un’ idea tutta sua dell’uomo di cui dovrebbe innamorarsi.

Eppure Leone piaceva alle donne. Per alcuni il suo fascino risiedeva in una certa aria drammatica e severa, per la sua grande amica Tina Pizzardo invece, risiedeva nell’infinita capacità di ascoltare e di passare da un argomento all’altro. Diceva che con lui si poteva parlare di tutto: politica, amori, filosofia, ricordi d’infanzia perché Leone era "il più intelligente ma soprattutto il più buono, il più fraterno, il più caro".

A Massimo Ottolenghi, suo compagno di scuola al liceo Massimo d’Azeglio di Torino, pareva un eroe fin da quei tempi.

"È vero, era brutto Leone, ma era eccezionale. Lui ed Emanuele Artom, un altro eroe che subì indicibili sevizie e fu ucciso nel 1944 dai tedeschi, erano gli unici brutti tra i resistenti che erano tutti bellissimi! Leone era irsuto, molto pallido, barba fitta e nera sopraccigli enormi che si chiudevano sul naso…"

Ma come era arrivato Leone, il cospiratore, in casa Levi?

Leone Ginzburg, foto segnaletica (1934)

Furono le Parche, dee del destino, figlie della notte, a intrecciare saldamente i fili delle fragili esistenze di quei due ragazzi ebrei, cresciuti all’ombra del fascismo, della guerra, delle leggi razziali.

Il primo filo lo tirarono nell’estate del 1924.

Giacomo Matteotti era stato assassinato, Mussolini stava per prendere il potere, il re si era schierato con il regime. Nel frattempo i fascisti impazzavano per l’Italia a intimidire, devastare, punire chi non si era abbastanza allineato, gli indecisi, si fa per dire.

Avevano preso di mira le sedi delle riviste, evidentemente considerate covi di sovversivi, così come poco tempo prima avevano assaltato la sede di Tempi nuovi, rivista fondata da Camillo Olivetti, padre di quell’Adriano già antifascista, già amico dei fratelli Levi, futuro marito di Paola.

Alla luce di quello e di molti altri soprusi, Adriano Olivetti aveva radicalizzato la sua posizione, era diventato un antifascista che non solo leggeva e discuteva, ma agiva.

Per questo mobilitò i suoi amici: quando venne il momento di far fuggire Turati - dato che le cose si erano messe male - Adriano andò dai Levi chiedendo che lo nascondessero per una settimana almeno, il tempo di organizzare la fuga in Francia. Turati, la madre di Natalia, lo conosceva fin da piccola essendo suo padre e i suoi zii molto amici tra di loro. In casa tutti sapevano chi era il fuggiasco e proprio per questo, per proteggerlo, lo chiamavano Paolo: Paolo Ferrari. I muri, si sa, hanno occhi e hanno orecchie.

Racconterà Natalia: "Una sera, cenammo presto, e capii che Paolo Ferrari doveva partire".

Poi arrivò Adriano, e lei gli vide "il viso trafelato, spaventato e felice di quando portava in salvo qualcuno". Era l’otto dicembre 1926.

Alla fine Turati si salvò, Parri e Rosselli invece no, vennero arrestati dalla polizia a Massa.

La parca, allora, iniziò a tessere il secondo filo.

Il giro dei cospiratori antifascisti si allargò sempre di più, e anche l’amico di Carlo Rosselli, Leone, punto di riferimento in Italia di Giustizia e Libertà, prese a frequentare casa Levi in via Pallamaglio.

A quel tempo, quando Leone fece la sua comparsa, Natalia andava ancora a scuola e passava i suoi pomeriggi a scrivere e riscrivere novelle che leggeva ad alta voce e poi nascondeva nei cassetti, incerta del risultato finale.

Scrivere per lei era un modo stare in quella famiglia di adulti in cui nessuno la guardava. I fratelli più grandi la prendevano in giro, le dicevano che era stata adottata, la chiamavano Maria Temporala, perché era sempre imbronciata, impiastro perché non sapeva allacciarsi le scarpe, non camminava in montagna, a scuola andava malissimo. Lei allora si chiudeva nella sua stanzetta o si accucciava in giardino dentro la fontana di pietra senza acqua.

Era nata per ultima, da genitori non più giovani, i suoi quattro fratelli erano molto più grandi, e si sentiva terribilmente sola in quella casa di adulti.

Il terzo filo si intrecciò quando, una sera, Mario spalancò la porta di camera sua e le disse: "Dammi la novella che la faccio leggere a Benedetto Croce".

La novella da sottoporre a Croce era forse la prima che lei ritenesse in cuor suo ben riuscita, ma non si fidò, tirò su alla rifusa i fogli dalla scrivania e stringendoli al petto si presentò in salotto, alzò lo sguardo perlustrando la stanza in cerca del canuto professore che tanto l’atterriva, ma non trovò nessuna testa bianca: solo un amico di Mario pieno di capelli neri.

Di quel primo incontro con Leone, in un’ intervista del 1963 a Oriana Fallaci, ricorderà: “Era questo Ginzburg tutto nerissimo e brutto”.

Non le piacque subito, fu a lungo dubbiosa del suo amore per lui, anche quando venne arrestato, anche quando le scrisse una lunga lettera d’amore, Natalia si schernì, incerta se avvicinarsi o ritrarsi da quel ragazzo così complicato, che credeva in lei e nel suo talento.

Ma come era possibile che un amico dei suoi fratelli credesse tanto in lei? Selvatica com’era, lei non sapeva che farsene di tanta ammirazione.

Selvatica e per niente femminista, così la ricorda anche la figlia Alessandra, psicanalista e scrittrice: "Mia madre ha sempre preso le distanze da alcuni atteggiamenti che lei stessa non condivideva, legati soprattutto a uno stereotipo di donna sentimentale e frivolo".

Con la scusa di Mario, comunque Leone portava Natalia a passeggio, e parlavano, passeggiando, per ore. Aveva l’ossessione del dovere morale. Natalia preoccupata gli chiedeva se anche lei fosse una persona morale.

Lui non si pronunciava, diceva però che la trovava impressionabile, come sono in genere impressionabili i poeti, e a quel punto lei, invece di inorgoglirsi si preoccupava, e si chiedeva se non fosse meglio per lei essere una persona morale.

Si sposarono infine, e le Parche si compiacquero del loro operato.

Il tempo migliore della nostra vita di Antonio Scurati

Leone Ginzburg rifiuta di giurare fedeltà al fascismo l’8 gennaio 1934. Pronunciando apertamente il suo “no”, imbocca la strada difficile che lo condurrà a diventare un eroe della Resistenza. Un combattente mite, integerrimo e irriducibile che non imbraccerà mai le armi. Mentre l’Europa è travolta dalla marcia trionfale dei fascismi, questo giovane intellettuale formidabile prende posizione contro il mondo servile che lo circonda e la follia del secolo.

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Si sposarono quando lui uscì di prigione, c’era stata la retata di Giustizia e Libertà e gli avevano quattro anni di carcere, anche se poi un’amnistia gli aveva dimezzato la pena.

Quando Natalia lo ritrovò pensò che aveva un paltò troppo corto, un cappello frusto e storto.

Si sposarono quando Leone fondò con Giulio Einaudi la casa editrice, e poté finalmente avere uno stipendio di seicento lire mensili .

A Oriana Fallaci, Natalia avrebbe raccontato: "in virtù dello stipendio fisso, Leone e io ci siamo sposati".

Si sposarono in verità, perché le idee di Leone corrispondevano perfettamente ai sentimenti di Natalia.

Leone era diventato amico di Mario Levi, grazie alla comune amicizia per Carlo Rosselli che a Parigi aveva fondato il movimento clandestino Giustizia e Libertà.

Era giunto a Parigi nell’aprile 1932 convinto di voler approfondire la sua tesi di laurea su Maupassant, e invece aveva trovato Parri e Rosselli.

Quello stesso anno, tornato a Torino, Leone avrebbe ottenuto la libera docenza in Letteratura Russa ma due anni più tardi si rifiutò di giurare fedeltà al fascismo incamminandosi, senza mai voltarsi indietro, per l’ aspra strada dell’esilio.

Di quella sua scelta avrebbe detto soltanto: "La storia ha esigenze inesorabili, che è meglio riconoscere con virile chiaroveggenza".

Ma poi Leone era anche amico di Cesare Pavese, che della politica se ne infischiava.

Stavano a parlare la sera per ore, Cesarito fumava la pipa e si attorcigliava i capelli, poi a una certa ora se ne usciva nella notte e si allontanava stretto nel suo paltò dal bavero rialzato, chiuso nelle spalle come a difendersi dalla realtà. Leone restava alzato ancora a lungo, rimaneva in piedi, appoggiato alla libreria, tirava fuori un libro e lo sfogliava per ore.

Chissà che cosa lo attraeva in Cesare, forse quel suo modo così drammatico di essere poeta, di lasciarsi catturare e portare via dalle emozioni che, in fondo, era quel che faceva anche Natalia.

Quando Pavese morirà lascerà in casa editrice e nei suoi amici un vuoto che sarà come una vertigine. Per anni Giulio Einaudi non ne vorrà neppure parlare: "non chiedermi niente di Pavese perché non ti rispondo".

Natalia scriverà di lui un ritratto dove alla grande nostalgia per l’amico si accomuna la nostalgia del suo Leone, della loro giovinezza.

In Lessico Famigliare racconterà a se stessa le ragioni di quell’abbandono. Spiegherà amaramente che lui non amava la vita, "e quel suo guardare oltre la propria morte non era amore per la vita, ma un pronto calcolo di circostanze, perché nulla, nemmeno dopo morto potesse coglierlo di sorpresa".

A ben vedere Pavese era proprio questo che detestava in se stesso, la paura di affrontare la vita, paura che non aveva Leone, non aveva Adriano Olivetti, e neppure Natalia.

Dirà lei in Tutti i nostri ieri che è libero chi accetta di vivere quel che c’è da vivere. Libero è chi accetta di lottare per un mondo migliore, chi lotta per chi non sa o non può farlo, chi immola la propria vita per difendere l’ideale di giustizia tra gli uomini.

Libero fu Leone, che nell’agosto 1943 scrisse a Carocci: "io non so dove porterò Natalia e i bambini. Certo andrò via di qui appena liberato".

Sarebbe andato a Roma, avrebbe stabilito di nuovo i contatti con il Partito d’Azione avrebbe diretto la sede romana di Einaudi, e anche il giornale clandestino L’Italia libera.

Libero fu Adriano Olivetti, che rischiò la vita per salvare gli amici e nel rischiare la vita gli ridevano gli occhi e gli si scarmigliavano i radi capelli in testa, liberi furono gli amici della Confraternita, libero fu Emanuele Artom, per non parlare di Carlo Rosselli e di Ferruccio Parri.

E dunque come interpretare i tentennamenti di Pavese, le sue reticenze, la sua paura di non riuscire ad essere un eroe, come in fondo tutti loro ragazzi sentivano confusamente di essere?

Come giudicare le parole laconiche "Finito confino", che segnarono il suo ritorno dall’esilio in Sicilia?

"Finito confino"perché chiese la grazia a Mussolini e la grazia gli venne concessa.

E come tornò a casa, a Torino? Davvero il silenzio dell’amico, il suo sguardo affettuoso, il suo abbraccio dopo tanta lontananza, davvero non gli bruciarono la pelle?

Nonostante ciò Pavese fu amato e compreso dagli amici e venne, a ragione, ritenuto un grande. Pari a Leone e a tutti gli altri. Anche lui, alla fine, un eroe.

Sappiamo con certezza che Leone non lo giudicherà mai, perché sapeva che il coraggio dell’amico stava tutto nel saper raccontare storie.

Anche questa è una via.

Significativo a questo proposito il commento di Pietro Calamandrei a La luna e i falò.

"Questa è grande arte, e poesia vera: di fronte a pagine come queste, dove il dolore della vita è filtrato attraverso la serena contemplazione del ricordo, le polemiche sui fini dell’arte sulle relazioni tra arte e politica non hanno più senso".

Lessico famigliare di Natalia Ginzburg

«Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all'estero: e non ci scriviamo spesso. Quando c'incontriamo, possiamo essere, l'uno con l'altro, indifferenti, o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase, una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia».

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Sii coraggiosa.

Questa invece è l’eredità di Leone.

Sii coraggiosa, difendi i nostri figli, difendi il mio ricordo, difendi il tuo talento.

Anzi, il tuo talento di scrittrice ti permetterà di vivere, di crescere i nostri figli come volevamo, di mantenermi vivo.

E Natalia gli risponderà, non lo farà con una lettera, con una poesia, con i suoi libri, ma con tutta se stessa.

Dice Hillman ne Il suicidio e l’anima che esiste una comunicazione intensa tra il mondo dei vivi e quello dei morti e che le nostre azioni, ciò che facciamo su questa terra, aiuta e conforta le anime di coloro che sono passati dall’altra parte. Come fossero preghiere.

Ma c’è un’immagine che più di tutte mostra come Leone seppe influire sulla vita di sua moglie, come fu capace di condurla in salvo anche dopo la morte.

Siamo nel febbraio del 1944, in via Robbia, a Firenze, c’è una casa dove si nascondono alcuni ebrei in fuga dalle persecuzioni, tra questi il poeta Umberto Saba con la moglie e la figlia Lina.

Non si sa se sia giorno o notte, fatto sta che a un certo punto bussano alla porta.

"Aprii di colpo", racconta Linuccia Saba e in quella frase c’è tutta la paura di morire e il coraggio di affrontare il proprio destino, magari sono venuti a stanarci, magari invece qualcuno cerca la salvezza, non si può sapere, l’unico modo che rimane per affrontare la vita è il coraggio di dare uno strappo alla porta.

"Sulla porta c’era una donna con un fazzoletto nero in capo, un bambino in collo e due attaccati al vestito".

Era Natalia in fuga da Roma.

Avevano ucciso Leone in carcere, a Regina Coeli e Adriano Olivetti le aveva detto scappa, qui non puoi stare, allora lei era scappata, aveva preso i suoi bambini e aveva iniziato a fuggire, di casa in casa, di convento in convento, di stazione in stazione avevano risalito l’Italia. Non si sa perché avesse deciso di fermarsi proprio a Firenze, forse aveva avuto quell’indirizzo tramite la Rete della Resistenza, forse glielo aveva messo in tasca Adriano, fatto sta che arrivò a quella porta e "restò muta a guardarci, e tutti, come per muta intesa, avanti a lei si alzarono in piedi".

Nessuno capisce chi sia quella donna, ha un viso scolpito dal dolore, la faccia di una ragazza di più mille anni che traghetta i figli fuori dall’inferno, ma al suo cospetto, istintivamente, tutti si levano. Non per soccorrerla, bensì per onorare il suo coraggio.

Esiste una foto di Natalia, datata 1942, cioè soltanto di due anni prima: tiene il piccolo Andrea in braccio, Carlo per mano, i bambini sono imbronciati e distratti, lei invece guarda l’obbiettivo, fiduciosa e sorridente, ha i capelli lunghi e un vestitino a fiori. E’ lieve, perché la sua vita scorre lieve, come quella di ogni giovane moglie. Sono ancora al sicuro, la mamma e i due bambini, tutti e tre nell’età dell’innocenza.

Quel che succederà, dopo, renderà Natalia irriconoscibile a se stessa.

"Mia madre - racconta Linuccia Saba - fu la prima a riconoscerla e abbracciarla".

È quello l’ultimo fotogramma del primo atto e il primo del secondo.

Tutti i nostri ieri di Natalia Ginzburg

"Il piacere di Natalia è inventare storie familiari che portino in sé quello snodarsi di sentimenti e legami e caratteri e simpatie e antipatie e rancori e amori, che hanno le storie delle vere famiglie, e quel tanto di sempre prevedibile e quel tanto di sempre casuale, e quel tanto di comune aria di famiglia e quel tanto d'imprevedibilità individuale nel venir su dei figlioli, una generazione dopo l'altra". (Italo Calvino)

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Anche questo atto ha una trama complicata, densa di avvenimenti: ancora bisogna fuggire e non c’è tempo per pensare a come difendere la giustizia e la libertà, la prima cosa da fare, ora, è mettere in salvo i figli.

I bambini vanno nascosti, ciascuno in un posto diverso, tenerli insieme è troppo pericoloso, perciò Andrea starà da Paola, Carlo dai nonni, la piccola Alessandra verrà affidata alle suore.

Poi arriverà il tempo in cui si ritroveranno e ricorderanno.

"I miei figli - dirà in una lunga intervista Natalia a Oriana Fallaci - io gli ho raccontato tutto".

E poi c’è il fotogramma che segna la rinascita di Carlo.

Sono passati soltanto sei mesi dallo sbarco in via Robbia, a Firenze, la mamma lo ha affidato ai nonni e poi è sparita, eterna fuggiasca, ma c’è nonna Lidia con lui, in un albergo di Vallombrosa, che lo tiene stretto.

Ogni sera prima di andare a dormire guardano le figure e leggono le avventure de Il più felice bambino del mondo.

"C'era una volta, lontano lontano, proprio in capo al mondo, in cima ad una bella collina, una casetta bianca, bianca come la panna montata…"

Forse Carlo non si immedesima proprio fino in fondo nel bambino più felice del mondo, ma lo stesso ascolta attento, le parole della nonna scivolano leggere, e lui per un momento dimentica tutto quello che è successo, la grande fuga, la fame, il freddo, la paura.

Ma dalla strada arrivano delle voci: sono i tedeschi, vogliono entrare, anzi, sono già dentro, danno ordini, urlano, vogliono svuotare l’albergo. Si sparge la voce che prederanno tutti quanti e li porteranno sull’Appennino

La nonna terrorizzata prende una matita e veloce scrive sul libro "Carlo Tanzi. Se ti chiedono come ti chiami rispondi mi chiamo Carlo Tanzi, hai capito?"

"In quel momento - ricorderà Carlo molti anni dopo - sono diventato ebreo".

Prima di diventare ebreo, Carlo era stato un bambino felice.

Aveva vissuto in Abruzzo, a Pizzoli, insieme ai suoi fratelli, a sua madre a suo padre, ignaro che quello fosse l’esilio.

Non sappiamo che cosa ricordi, che cosa pensò quando entrò in quella casa, la casa dell’esilio, per mano di sua madre, non sappiamo dei loro lunghi giorni sempre "uguali, lontani dalla loro città, lontani dai loro libri, lontani dagli amici e dalle vicende mutevoli di una vera esistenza".

Suo padre laggiù lo chiamavano il professore e lo riverivano, e arrivavano da lontano per chiedergli pareri su questo e su quello, e io immagino il piccolo Carlo accucciato nel mezzo alla grande stanza riscaldata dalla stufa verde, la stanza che sul soffitto aveva disegnata un’ aquila, lo immagino immerso nei suoi pensieri, circondato dai suoi giocattoli, alzare appena il capo per osservare di sottecchi la processione che chiedeva a suo padre quando fosse la stagione più propizia per togliere i denti, come scrivere una lettera per ottenere un sussidio, come fare a pagare le tasse.

Ascoltava senza neppure respirare Carlo, le storie che gli raccontava la Crocetta, la ragazza di quattordici anni che faceva i mestieri da loro. Erano racconti lunghi e complicati, parlavano di un mondo violento e selvatico, dove i bambini venivano uccisi dalle matrigne e serviti in tavola a padri ignari.

E poi venne l’armistizio, e due giorni dopo l’armistizio arrivarono i tedeschi.

Adesso la gente non faceva più domande a suo padre, anche perché suo padre era partito, scivolava lungo i muri e si rintanava in casa in attesa del peggio.

Ora il grande tavolo ovale è sgombro dei libri e delle carte, e la Crocetta non racconta più storie truci, perché qualcosa di ancor più truce opprime l’aria e cala sulle loro teste come un oscuro presagio.

Scappa! Ha detto il padre alla madre, da Roma è arrivata una lettera una mattina, un uomo è scivolato in casa e senza dire una parola l’ha allungata alla madre. Con la faccia scura lei ha incominciato a raccogliere tutto quello che trovava per terra, sul tavolo, sui letti. Ha raccattato quello che poteva.

Poi la gente del paese ha iniziato a bussare alla porta, in piedi sull’uscio si sono scambiati parole secche, bisbigliate ia mezza bocca.

Ma non c’era molto da dire, in un attimo tutti avevano capito che cosa bisognava fare per mettere in salvo la ragazza e suoi bambini.

Aveva appoggiato le valige davanti alla porta la madre, in quell’alba del primo novembre, aveva sfilato i bambini che dormivano dai loro lettini caldi, si era messa in collo Alessandra, e tutti insieme erano saliti su un camion di tedeschi in partenza per Roma. Un attimo prima di partire si era sporta un poco all’ingiù e aveva detto all’ uomo che li aveva accompagnati : “Qualunque cosa succeda dì a Leone che abbiamo fatto il nostro dovere”.

Chissà se Carlo e Andrea avranno sentito, chissà come avranno riverberato in loro quelle parole. Cosa vuol dire fare il proprio dovere?

Molti anni dopo Carlo sarebbe diventato uno storico, Andrea un economista di valore, fondatore tra l’altro della facoltà di Economia di Modena e Reggio Emilia.

Ma poi il camion era partito e lui si era girato all’indietro per guardare il paese addormentato nella nebbia, per cercare la bottega ancora chiusa di Girò, e aveva fissato il campanile della chiesa di Santa Maria, che ritto là nel mezzo, proteggeva le sue casette come una bravo pastore e chiamava le sue donne a pregare. Lo aveva fissato fino alla fine, senza mai perderlo d’occhio, finché non era diventato piccolo come una delle sue torri di legno e il suono delle campane si era fatto sempre più debole fino a che si era confuso con il rumore delle ruote sui sassi.

A quel tempo lui aveva quattro anni, Andrea ne aveva tre, Alessandra sette mesi.

Non si sa come arrivarono dal padre, se lo scorsero da lontano confuso tra la folla, nel suo impermeabile chiaro, se alla madre, nel ritrovarlo, finalmente tornò il sorriso. Certo è che, di quel preciso istante, Natalia avrebbe scritto:

"Credetti che sarebbe cominciato per noi un tempo felice".

E poi invece a Roma arrivò la notizia della morte del padre, e poi arrivò anche Adriano Olivetti, entrò in casa tutto agitato e a capo chino iniziò a raccogliere le poche cose che trovava in giro, e così arrivarono i giorni in cui non avevano casa e correvano di rifugio in rifugio, di stazione in stazione, e poi a arrivò a Firenze quella porta che di colpo si aprì, e gli sguardi muti di coloro che, riconoscendoli, si levarono in piedi.

Che cosa significa fare il proprio dovere?

"Non possiamo mentire sui libri e non possiamo mentire in nessuna delle cose che facciamo. E forse questo è l’unico bene che ci è venuto dalla guerra" scrisse anni dopo Natalia.

Forse, allora, fare il proprio dovere significa fare ordine tra queste immagini violente e convulse, indovinare la giusta sequenza dei fatti, indagare sul perché avvenne tutto quello, e farlo senza mentire.

Bisogna guardare le immagini per recuperarne la densità, dice Carlo Ginzburg molti anni dopo, e per spiegarsi si aiuta con Nietzsche: “La filologia è l’arte di leggere lentamente”.

Perché, aggiunge, occorre intendere la filologia in senso lato, estenderla dai testi alle immagini. Guardare le immagini lentamente.

Il filo e le tracce di Carlo Ginzburg

“Oggi nessuno dei termini di questa definizione (raccontare, tracce, storie, vere, falso) mi appare scontato” Questo libro esplora il mutevole rapporto tra verità storica, finzione e menzogna attraverso una serie di casi.

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Poi arrivarono gli anni della giovinezza, gli anni in cui la madre avrebbe raccontato ai figli tutto quello che era successo, senza mentire, senza omettere nulla. E infine il momento di iscriversi all’università.

Quale era adesso il suo dovere?

Se il dovere di Leone, (Sandra Petrignani nel libro La Corsara parla di karma), era stato la politica, era stato combattere le ingiustizie a viso aperto, se il dovere di sua madre era stato raccontare senza mai mentire, quale sarebbe stato il dovere di quel ragazzo che nel 1959 si stava affacciando alla vita adulta?

Racconta Carlo, in una intervista del 2016 alla Radiotelevisione svizzera intitolata Dialogo Magico, che a quell’epoca era attratto da molte cose: dallo studio della letteratura, dalla linguistica, dalla filosofia… ma poi, per caso, si imbatté nella lettura di Mondo Magico di Ernesto De Martino.

Ma chi sa cos’è il caso?

Carlo non si stanca di rispondere a questa domanda con una frase del grande studioso Carlo Dionisotti: "Per mero caso, ossia per la norma che presiede alla ricerca dell’ignoto".

Così, per mero caso, la lettura del libro di Ernesto de Martino Il mondo magico e la lettura di Mimesis di Auerbach, segnarono la sua strada di storico, anzi possiamo dire che è da quel momento che egli decide di studiare non tanto la persecuzione della stregoneria, ma gli atteggiamenti e le credenze di coloro che erano stati accusati di stregoneria.

Era l’autunno 1959.

“ … Presi a un tratto ( ricordo il momento esatto, stavo fissando uno scaffale a vetri) una decisione, anzi tre: che avrei cercato di imparare il mestiere dello storico, che mi sarei messo a studiare i processi di stregoneria, che mi sarei concentrato non sulla persecuzione in quanto tale ma sulle vittime, ossia gli uomini e le donne accusati di stregoneria”.

Dietro quella decisione c’erano le letture dei diciotto anni: Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, Il Mondo magico di Ernesto de Martino, Dialoghi con Leucò di Pavese.

Non sarebbe stato facile; da subito infatti egli comprese che lo studio delle vittime della stregoneria era un tema riservato agli antropologi, non agli storici.

Ma fu proprio l’incunearsi dell’antropologia tra le pieghe della storia a dare come risultato finale la microstoria.

La microstoria: quando si cominciò a parlarne, a metà degli anni settanta, gran parte degli storici italiani giudicò stravagante quell’interesse per l’antropologia e per le scienze sociali. Eppure Arnaldo Momigliano nel 1977 scrisse: "La caratteristica più pervasiva della storiografia degli ultimi quindici anni è forse l’attenzione ai gruppi oppressi e/o minoritari nell’interno delle civiltà più avanzate: donne, bambini, schiavi, uomini di colore, o più semplicemente eretici, contadini, operai. Con tale caratteristica si congiunge l’attenzione crescente alle forme intellettuali associate alle classi subalterne, quali la cultura di massa, la magia, il folklore e, fino a un certo punto, la tradizione orale".

Storicizzare l’intemporale, riprendere una tensione dialettica tra alto e basso, sacro e quotidiano, politico e trascendente, sentimento e conoscenza, teoria e prassi: da questi presupposti nacquero I Benandanti, una ricerca sulla società contadina friulana del Cinquecento, il saggio Folklore, magia, religione scritto per il primo volume della Storia d'Italia della Einaudi, Il formaggio e i vermi, che narra delle vicende di Menocchio, un mugnaio del XVI secolo per due volte sottoposto a processo da parte dell'Inquisizione, Storia Notturna. Una decifrazione del Sabba.

Oggi egli si chiede retrospettivamente che cosa ci fosse esattamente dietro quelle scelte.

"Molto tempo dopo è affiorato anche un elemento autobiografico, il ricordo della guerra e della persecuzione", ha raccontato agli studenti della Normale di Pisa in una conferenza del 2017.

Perché - per quali motivi, conci e inconsci - egli si chiede nella postfazione dei Benandanti, pubblicato da Adelphi cinquant’anni dopo, scrissi quel libro?

Definisce questo continuo domandarsi un esercizio di autoanalisi, ma anche un tentativo di capire le sue reazioni al caso, all’incontro con un documento, con un nome, con un particolare. È convinto fermamente che il caso non esista e che ogni nostra scelta parta da presupposti e pregiudizi il più delle volte inconsci.

Tutto vero. Nel leggere questa sua autoanalisi anche a me viene in mente il bambino che fugge per mano di sua madre, il bambino che deve nascondere il suo vero nome. Ma penso anche all’inverno in Abruzzo.

Quando la prima neve cominciava a cadere una lenta tristezza s’impadroniva della madre che ricordava, allora, che quello era l’esilio.

A volte lei lo prendeva per mano e lo portava in visita nelle case. Ogni casa aveva un fuoco, e ce n’erano di varie specie: quelli con i ceppi di quercia, quelli di frasche e foglie, quelli di sterpi, le loro fiamme si attorcigliavano alle parole della gente a formare un unico, lungo racconto, che non aveva né inizio né fine.

Scriveva Céline: tout ce qui est intéressant se passe dans l’ombre… On ne sait rien de la véritable histoire des hommes.

Ma esiste un dare e un avere in tutte le storie, e Carlo Ginzburg estinse il suo debito togliendo quelle storie dall’ombra. Consegnandole alla Storia.

La nostalgia, perché di questo si tratta, è il primo motore della scrittura.

Ne ha parlato, e lungamente scritto Lisa, figlia di Carlo Ginzburg e ultima erede letteraria. Esiste un libro pubblicato dalla casa editrice Italosvevo, piccolo e denso di pensieri, nel quale Lisa riflette sulla propria esperienza di scrittrice. Ispirata da un verso di Emily Dickinson lo ha intitolato Buongiorno mezzanotte, torno a casa ed è un vero e proprio elogio della provvisorietà.

Spiega Lisa in un’intervista che, se il transito nasconde in sé qualcosa di stimolante per creare, esso è allo stesso tempo portatore di nostalgia.

Emigrante volontaria, Lisa ha scritto questo libro a Parigi, dove viveva da anni perché, dice, una volta trovata casa e lavoro in Francia mi sono accorta che non riuscivo più a tornare indietro. Parigi, dice, "è sempre stata il mio altrove, fin da ragazza".

C’era Roma, la casa, dove stava come si sta dentro a un paio di pantofole, e poi c’era Parigi. A Parigi, spiega, doveva stare diritta. L’estraneità, quel leggero ma costante senso di sradicamento provocato dal vivere lontano, implicava un dominio dei gesti quotidiani, dei pensieri.

È andata, ma poi non è tornata, e tutto questo non ha fatto che amplificare la nostalgia. Ma è proprio questo sentimento, sentimento che potremmo anche chiamare malinconia, o anche spleen, che domina tutti gli scrittori e nutre la loro creatività.

Lo scrisse anche sua nonna: il mestiere dello scrittore si sazia dei giorni e dei casi della nostra vita, dei giorni e dei casi della vita degli altri, di letture e immagini e pensieri e discorsi.

E dunque viene da pensare che quello del scrittore non sia tanto un mestiere quanto un destino che ci condanna a vivere ricordando - letteralmente riportando al cuore - la nostra vita, le vite altrui.

Da bambina, Lisa aveva inventato due parole: “casalinghi” e “fuorilunghi”, e se dei casalinghi sappiamo quasi tutto, dei fuorilunghi intuiamo che sono il loro esatto contrario, ovvero coloro che viaggiano continuamente, che stanno a lungo lontano da casa. Magari con poca felicità, ma ci stanno.

"Io ero a Roma - dice Lisa - e appena potevo prendevo il treno Palatino e partivo". Lei è una “fuorilunga”, non c’è dubbio.

Ma poi è lì e vorrebbe andarsene, parla la lingua e non ha voglia di parlarla bene, l’umanità e l’antropologia la innervosiscono esattamente come innervosivano sua nonna ( una vera “casalinga”) quando andava all’estero.

"Lui ama i viaggi, le città straniere e sconosciute, i ristoranti. Io resterei sempre a casa, non mi muoverei mai" (Le piccole virtù).

Eppure è proprio questa polemica interiore ad essere stimolante. Esistono scrittori che nel patire questa condizione di sradicati volontari, danno alla luce pagine bellissime. C’era Gogol, che scriveva a Roma le Anime Morte seduto al Caffè Greco in via Condotti, e c’era Annamaria Ortese che si spostava di continuo e, spostandosi, litigava dentro di sé con i luoghi.

Del resto, lo ammette anche lei, si scrive meglio quando si è lontani.

Ma perchè? Per il semplice fatto che se rimani nel luogo dell’infanzia tutto parla di te e ti vincola a una certa immagine di te stessa, mentre allontanandoti puoi reinventarti.

E poi rimane un rabbioso stare, un andirivieni del pensiero che accende la nostalgia, che fa tornare ad apprezzare i luoghi antichi luoghi nei quali ora ci pare di essere sempre stati felici e neppure sapevamo di esserlo.

"Il tempo migliore della nostra vita - diceva Natalia - solo adesso che m’è sfuggito per sempre, solo adesso lo so".

Lisa e sua sorella Silvia hanno avuto in eredità un cognome importante, e se Silvia insegna all’università di Roma Tre Storia dell’Arte Moderna ed è autrice di numerosi saggi sulla pittura del Cinquecento e del Seicento, Lisa scrive, e in quanto scrittore sa che è la lontananza a permetterle di mostrarsi per come realmente è. Ma esiste, per lei, il rischio di non sapersi fermare, di continuare ad andare e mai tornare.

Per questo deve arrivare il giorno in cui, dopo aver fuggito a lungo, e aver patito terribilmente la nostalgia di una casa, troviamo la nostra nuova casa, il nostro punto di vista, una torre di vedetta ben piantata a terra dalla quale osservare e ricordare e scrivere. "A volte - dice Lisa - è necessario ripassare dalla casella del via, sparigliare le carte, e rilanciare anche il gioco del destino".

Cara pace di Lisa Ginzburg

Maddalena, la maggiore, è timida,sobria, riservata. Nina, di poco minore, è bella e capricciosa,magnetica, difficile, prigioniera del proprio egocentrismo. Le due sorelle, legate dal filo di un’intima indistinzione, hanno costruito la loro infanzia e adolescenza intorno a un grande vuoto, un’assenza difficile da accettare.

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In questo continuo andirivieni di paura e desiderio diventiamo indecifrabili al nostro sguardo, un’unità inestricabile di sentimenti contrastanti: siamo un carapace pronto a difendersi, e allo stesso tempo aneliamo a una cara pace per riconciliarci con il passato.

Di questa contraddizione apparentemente irrisolvibile parla anche l’ultimo romanzo di Lisa intitolato, appunto, Cara Pace.

Attraverso le vicende di due sorelle, Maddalena e Nina, tocchiamo con mano l’essenza dei legami famigliari viscerali, che respingono e attraggono, uniscono e separano, distruggono e danno la vita.

E sa ben riconoscere, Lisa, i segni del dolore che rimangono sul corpo, le ferite del passato, i segni psicologici che marcano una vita, quei segni che ciascuno di noi ha inscritto nel corpo della propria infanzia e della propria storia. Le sue due sorelle, ad esempio, corrono, corrono… non sanno fermarsi mai.

A volte non sono segni ma reazioni.

"Se guardo i miei bambini che dormono penso con sollievo che non dovrò svegliarli nella notte e scappare. Ma non è un sollievo profondo. Mi pare sempre che un giorno o l’altro dovremo di nuovo alzarci di notte e scappare, lasciare dietro a noi stanze quiete e lettere e ricordi e indumenti". (Il figlio dell’uomo).

A volte il dolore è una spada che ferisce attraverso il tempo.

E che cosa rappresenta questo anelito a correre, ad andare, a fuggire della famiglia Ginzburg, se non un lungo, ininterrotto colloquio amoroso tra le generazioni?

Domande e risposte riverberano in lontananza illuminando a tratti il cammino, un lessico segreto scritto nel corpo, unisce Leone e Natalia ai loro figli, e ai figli dei figli. Inconsapevoli tedofori, corrono attraverso il tempo. La fiamma è sempre viva.

La corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg di Sandra Petrignani

Dalla nascita palermitana alla formazione torinese, fino al definitivo trasferimento a Roma, Sandra Petrignani ripercorre la vita di una grande protagonista del panorama culturale italiano. Ne segue le tracce visitando le case che abitò, da quella siciliana di nascita alla torinese di via Pallamaglio – la casa di Lessico famigliare – all’appartamento dell’esilio a quello romano in Campo Marzio, di fronte alle finestre di Italo Calvino. Incontra diversi testimoni, in alcuni casi ormai centenari, della sua avventura umana, letteraria, politica, e ne rilegge sistematicamente l’opera fin dai primi esercizi infantili.

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Claudia Pozzo è nata a Trento ma vive a Milano dal 1968. Si è convinta che la sua strada era la scrittura nell’estate 1987 dopo aver letto Lessico famigliare di Natalia Ginzburg. Da allora ha pubblicato articoli, romanzi e drammaturgie. Al momento lavora a un progetto teatrale di integrazione portando in scena ragazzi dei licei e bambini stranieri.

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