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La vita in un pianeta che cambia

Di Matilde Quarti • agosto 06, 2021

Incontro Fabio Deotto in una vineria sui Navigli. È un pomeriggio in cui fa decisamente troppo caldo anche per un bicchiere di bianco: sembra che il clima voglia fare da adeguato sfondo al discorso che stiamo per iniziare, o forse è semplicemente un’afosa giornata estiva nella zona a più alto tasso di zanzare di tutta Milano.

L’argomento - vastissimo - di cui parleremo è il cambiamento climatico. Deotto, già autore dei romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014) e Un attimo prima (Einaudi, 2017) e giornalista specializzato nell’intersezione tra scienza e cultura, dopo un lavoro piuttosto lungo e un bel po’ di viaggi, a giugno 2021 è uscito in libreria con L’altro mondo (Bompiani).

Un reportage narrativo che attraversa alcuni luoghi del nostro pianeta, anche quelli che siamo abituati a considerare veri e propri paradisi terrestri, in cui gli effetti dell’emergenza climatica sono già a visibili e si ripercuotano sull’economia del posto e, soprattutto, sulla quotidianità dei suoi abitanti. Deotto non si limita a una descrizione di eventi, a un elenco di fatti: il fulcro del suo discorso, infatti, è l’indagine sui limiti percettivi e di interpretazione della realtà che, come esseri umani, ci impediscono di dare il giusto peso al problema e di mettere in atto le opportune azioni per arginarlo.

L'altro mondo. La vita in un pianeta che cambia di Fabio Deotto

Negli ultimi dieci anni la crisi climatica è passata da essere un problema delle generazioni future a un’urgenza di quelle presenti. Eppure, nonostante il mondo in cui viviamo sia cambiato in modo inequivocabile e sia ormai lontano da quello in cui siamo cresciuti, noi continuiamo a vederlo inalterato. La colpa è dei tanti angoli ciechi che intralciano la nostra percezione della realtà.

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Ti occupi di clima da diverso tempo, che percorso ti ha portato da un’indagine sull’emergenza climatica all’esigenza di raccontare non l’emergenza in sé ma il modo in cui la percepiamo?

Tutto nasce da un reportage a cui ho lavorato per Esquire, che aveva l’obiettivo di raccontare il fenomeno mostrandone i risvolti attuali e le ricadute sulla vita umana. Mentre visitavo i luoghi in cui gli effetti del cambiamento climatico erano più evidenti, mi sono reso conto sia che il materiale che stavo raccogliendo eccedeva rispetto allo “spazio” concesso a un singolo reportage, sia che, ritrovandomi in ambienti di cui avevo un’immagine precostituita, facevo fatica ad aggiornare la mia immagine mentale a quello che vedevo. Per fare un esempio: avevo un’idea “da cartolina” delle Maldive e, quando ci sono arrivato e ho trovato luoghi flagellati e stravolti dal cambiamento climatico, comunque continuavano ad apparirmi come un paradiso. Ed è a questo punto che è sorta la domanda alla base del libro: com’è possibile che, dopo aver visto con i miei occhi quanto l’emergenza climatica possa stravolgere la vita delle persone, continuo a fare fatica a provare una paura viscerale?

Prendere atto dell’emergenza è sufficiente per riallinearsi con la realtà effettiva e non con la cartolina che abbiamo in mente, oppure la questione è più complessa?

Noi tutti abbiamo un sistema di decodificazione che va a filtrare quello che osserviamo, ci poniamo nei confronti del reale in modo narrativo e questo ci porta a vedere le storie nascoste nella realtà piuttosto che i suoi dettagli. Dunque, i sistemi euristici con cui il nostro cervello interpreta la realtà e le storie che su di essa ci raccontiamo devono essere aggiornati, perché così come sono ci impediscono di valutare la dimensione globale del problema. L’alluvione in Germania ha acceso l’attenzione sull’emergenza climatica più di altri eventi e questo per un motivo molto semplice: la Germania è vicina, non la vediamo come un posto esotico, una volta tanto ci sembra sia successo a casa nostra. Però, anche se abbiamo posto attenzione sull’evento, ancora fatichiamo a vederlo come un sintomo collegabile a fatti analoghi che accadono in posti che invece non interpretiamo come “casa”. Molto probabilmente, nel giro di qualche settimana, derubricheremo l’alluvione come un fatto episodico, eccezionale, quando invece è il sintomo di una malattia più estesa. Io parlo di cambiare sguardo, ma possiamo farlo solo fino a un certo punto, perché rimarrà sempre limitato. Prendendo atto del fatto che quanto vediamo non sarà mai la totalità del reale, possiamo comunque sviluppare una preoccupazione effettiva e mettere in moto una serie di provvedimenti che altrimenti continueremmo a rimandare.

Spesso riferendosi al cambiamento climatico si parla di surriscaldamento globale, pensando solo al “caldo” così come siamo abituati a percepirlo, mentre di fatto a essere sovvertiti sono i meccanismi del clima.

Questo inverno, infatti, il Texas è stato assediato dal gelo, una cosa mai vista. Ma è difficile associare questi fenomeni a qualcosa che chiamiamo “riscaldamento globale”. La nostra civiltà si è sviluppata in un ambiente sostanzialmente stabile e ora assistiamo agli effetti di una temperatura più alta di appena 1 grado. La media oggi è di 1,2 gradi in media in più rispetto al periodo pre-industriale. Il problema è che non è semplice intuire le dinamiche dei fenomeni meteorologici: i climatologi non possono prevedere il singolo fenomeno, ciò che hanno previsto, infatti, è proprio che i pattern di precipitazione sarebbero diventati sempre più erratici. I fenomeni intensi ed estremi saranno meno rari e più duraturi: è quanto successo quest’anno, per esempio in Canada e in Germania. Per quanto riguarda l’Italia, ci troviamo già 2 gradi in media sopra i livelli preindustriali: una situazione che viene spiegata bene da Antonello Pasini in L’equazione dei disastri (Codice, 2020), un saggio che si concentra sulle vulnerabilità italiane, sui rischi a cui andiamo incontro e su quelli che già ci stiamo trovando ad affrontare.

Eppure c’è chi ancora nega gli effetti dell’emergenza climatica.

Il negazionismo sul cambiamento climatico è diverso da altri tipi di negazionismi a cui siamo abituati. Non ci troviamo di fronte a persone convinte che il riscaldamento globale non esista, ma a persone che conoscono benissimo il problema, e che strumentalmente diffondono una narrazione alternativa per instillare il dubbio che i suoi effetti non siano esattamente quelli prospettati dai climatologi. Sempre parlando di libri, per capire questo meccanismo di occultamento e distorsione della realtà può essere utile leggere I bugiardi del clima di Stella Levantesi (Laterza, 2021).

Come si può combattere l’aumento di temperatura?

Dobbiamo sia arrivare a una fondamentale riduzione di emissioni, sia adattarci a un cambiamento che avverrà a prescindere: anche se già da questo stesso istante venissero tagliate tutte le emissioni possibili, nei prossimi anni le temperature continuerebbero comunque a crescere di alcuni decimali. L’obiettivo, dunque, deve essere una transizione sufficientemente rapida da riuscire a contenere la media entro i 1,5, o al limite 2 gradi. Ma è evidente che la situazione sarà in ogni caso difficile da gestire e che si verificheranno disastri in molte parti del mondo. Dobbiamo anche prendere atto del fatto che le città sono una trappola di calore e modificare le infrastrutture per renderle più adatte ai cambiamenti climatici, per esempio creando dei corridoi verdi, gestendo la vegetazione in modo consapevole, ottimizzando la ventilazione, in modo che da qui a dieci anni possano essere ancora vivibili, benché più calde e con ambienti più problematici. Ed è importante anche ridurre il consumo individuale, dunque l’utilizzo di veicoli privati.

Torniamo al tuo, di libro, ma continuiamo a parlare di narrazioni. L’altro mondo è un reportage narrativo, in cui il lettore viaggia di pari passo con chi scrive e guarda il mondo attraverso i suoi occhi. È il frutto un’esigenza stilistica precisa?

È un’esigenza stilistica, ma è diventata tale solo in un secondo momento. Quando ho iniziato a lavorare al libro, mi sono subito reso conto che la dimensione narrativa era fondamentale, perché avevo fatto quello che potremmo chiamare, riferendoci a canoni narrativi, un “viaggio dell’eroe”: ero uscito dalla mia comfort-zone per attraversare un mondo sconosciuto, in cui mi aspettavo di trovare determinate cose, ma non sapevo quello che potevo aspettarmi da me stesso e come avrei reagito a quanto avrei trovato. Esponendomi in prima persona a uno stupore che, abitualmente, il lettore prova per procura quando si immedesima in un personaggio di un romanzo, sono diventato inconsapevolmente protagonista di un arco narrativo. Quindi, lavorando al testo, è stato naturale far emergere questo aspetto, trasformandolo in un filo conduttore tra i capitoli.
Alla fine la grande forza delle storie è legata al fatto che siamo creature narranti. Abbiamo sviluppato questo strumento portentoso non solo per trasferire informazioni, ma anche per creare mondi virtuali in cui chiunque si poteva immergere e avere accesso a un’esperienza utile, e questo è stato fondamentale per la nostra sopravvivenza.

Ci sono anche diverse questioni sociali sottese al discorso sul riscaldamento globale, in particolar modo di classe.

Lo dice il termine stesso: “globale”. L’anidride carbonica emessa da singoli paesi va a intaccare l’equilibrio di altre nazioni che hanno meno responsabilità, come le Maldive. William Gibson scriveva che “il futuro è già arrivato ma non è uniformemente distribuito” ed è vero. Il cambiamento climatico è un moltiplicatore di rischi, che preme sulle crepe prima ancora che sulla struttura vera e propria, dunque le conseguenze peggiori dell’emergenza ricadono sulle comunità più vulnerabili. Su chi ha meno potere economico per proteggersi fisicamente dagli eventi estremi, oppure su nazioni che basano il proprio PIL sull’agricoltura, uno dei settori maggiormente colpiti dall’emergenza climatica. Inoltre, anche nei paesi più ricchi le comunità vulnerabili corrispondono spesso a quelle marginalizzate. Il caso di Miami Beach è paradigmatico: i quartieri più lontani dalla costa e dunque più al riparo dalle conseguenze dell’emergenza climatica sono anche quelli più poveri, abitati perlopiù da afroamericani. Questa gentrificazione climatica, pilotata da persone benestanti e bianche, sta costringendo gli abitanti di quei quartieri ad abbandonare la propria casa, perché non possono sostenere l’aumento dei prezzi. In generale, le iniquità sociali fanno sì che chi si trova all’intersezione di diverse marginalità si trovi a subire per primo le conseguenze del cambiamento climatico.

Discriminazione e sguardo limitato: anche gli studi scientifici sono spesso coinvolti in questo problema di percezione.

Sì, gli stessi studi scientifici su cui ci basiamo per capire le modalità in cui ci poniamo nei confronti del cambiamento climatico, dunque quegli studi che indagano lo stesso problema cognitivo che vado a esplorare in questo libro, forniscono a loro volta una lettura parziale della realtà. Ne parla Joseph Henrich in The WEIRDest People in the World (Farrar, Straus and Giroux, 2020): in questo saggio si mostra come molte pubblicazioni scientifiche siano condotte su un campione di persone non rappresentativo della maggioranza della popolazione globale, perché composto da soggetti per la gran parte bianchi, con un’istruzione universitaria e benestanti. E non possiamo fare finta che la loro esperienza sia sovrapponibile a quella di persone che vivono in condizioni completamente diverse.

Per circa un terzo del libro ti occupi di territori italiani, come sono stati scelti?

Ho scelto zone in cui potevo organizzare gli spostamenti nonostante il Covid. Venezia sarebbe stata in ogni caso una meta e, una volta capito che per questioni logistiche dovevo guardare al Nord Italia, la zona del delta del Po è risultata cruciale per parlare di agricoltura, mentre la Franciacorta per un discorso relativo a quei beni che siamo abituati a dare per scontati, come i vini pregiati. Ci sembra normale frequentare un posto come questo [Come specificato l’intervista si svolge in una vineria N.d.R.] e ordinare un bicchiere di Franciacorta, o comprarlo al supermercato a un costo magari maggiore rispetto ad altri vini, ma non proibitivo. Ma il Franciacorta, come altri prodotti, ha bisogno di stabilità climatica per avere le specifiche proprietà che gli riconosciamo, mentre i cambiamenti climatici pongono i produttori di fronte a problematiche difficilmente aggirabili. E questo aspetto riguarda sia i grandi produttori sia a maggior ragione i piccoli agricoltori.

Nei “capitoli italiani” hai anche dato spazio alle migrazioni.

Mi sono trovato a Trieste in un periodo in cui arrivavano comitive di migranti dalla rotta balcanica, persone che compiono un viaggio che non siamo abituati a raccontare. Quando pensiamo ai migranti, spesso ci riferiamo solo a chi arriva dal Mediterraneo, sui barconi. Mentre chi arriva a Trieste lo fa partendo dal Pakistan o dalla Siria e attraversando a piedi tutti i Balcani. Inoltre, il discorso sulle migrazioni va a intersecare quello sul riscaldamento globale perché la componente climatica va a sommarsi a dinamiche già esistenti. Ho voluto trattare la migrazione anche da altri punti di vista, mostrando tutti i limiti cognitivi che abbiamo in relazione al concetto di “migrante” perché volevo anche mostrare come questi limiti vadano a toccare ogni distretto della nostra esistenza. Da questo punto di vista consiglio la lettura di La frontiera di Alessandro Leogrande (Feltrinelli, 2017) e L’ingrata di Dina Nayeri (Feltrinelli, 2020), che evidenziano da due diverse prospettive le dinamiche delle migrazioni e possono aiutare a modificare lo sguardo.

Qual è la cosa più importante che hai imparato lavorando a questo libro?

Ho iniziato questo viaggio pensando di dover sviluppare uno sguardo onnicomprensivo e l’ho finito rendendomi conto che è impossibile e che, invece, è fondamentale mettersi nella disposizione di accogliere più sguardi possibili: non si deve mai pensare di poter prescindere dallo sguardo altrui. Infatti la soluzione all’emergenza climatica non può essere individuale, ma, necessariamente, collettiva.

Hai già nominato molti libri ma, se avessi davanti una persona che vuole avvicinarsi per la prima volta a queste tematiche, quali sono quelli che consiglieresti?

Il clima che cambia di Luca Mercalli (BUR, 2019) è un ottimo punto di partenza per inquadrare i problema e le sue sfaccettature. Poi Perdere la Terra di Nathaniel Rich (Mondadori, 2019), che racconta con stile narrativo i dieci anni, tra il 1979 e il 1989, in cui siamo stati vicinissimi ad affrontare il problema (e prevenire quanto sta accadendo), ma non lo abbiamo fatto. E poi Sapiens, di Yuval Noah Harari (Bompiani, 2017), che non tratta direttamente di clima ma è fondamentale per capire come si è originato il nostro sguardo sul mondo e come ampliarlo.

La frontiera di Alessandro Leogrande

C’è una linea immaginaria eppure realissima, una ferita non chiusa, un luogo di tutti e di nessuno di cui ognuno, invisibilmente, è parte: è la frontiera che separa e insieme unisce il Nord del mondo, democratico, liberale e civilizzato, e il Sud, povero, morso dalla guerra, arretrato e antidemocratico. È sul margine di questa frontiera che si gioca il Grande gioco del mondo contemporaneo.

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Sapiens. Da animali a dèi di Yuval Noah Harari

Il segreto del nostro successo è l'immaginazione. Siamo gli unici animali capaci di parlare di cose che esistono solo nelle nostre fantasie: come le divinità, le nazioni, le leggi e i soldi. Sapiens. Da animali a dèi spiega come ci siamo associati per creare città, regni e imperi; come abbiamo costruito la fiducia nei soldi, nei libri e nelle leggi; come ci siamo ritrovati schiavi della burocrazia, del consumismo e della ricerca della felicità.

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Perdere la Terra. Una storia recente di Nathaniel Rich

C'è stato un momento, fra il 1979 e il 1989, in cui i rappresentanti politici e la grande industria si sono dimostrati disposti a mettere in primo piano la tutela del pianeta e a collaborare con scienziati e attivisti per affrontare le conseguenze del riscaldamento globale. In più occasioni, durante quel decennio, le maggiori potenze mondiali sono arrivate a un soffio dal condividere un serio impegno sul cambiamento climatico. Ma non ce l'hanno fatta.

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Matilde Quarti è nata nel 1987 a Milano, dove vive e lavora come giornalista pubblicista per testate online e cartacee. Suoi racconti sono usciti su varie riviste letterarie indipendenti. Ama la letteratura russa e la montagna sopra i 2000 metri, dove il bosco cede il passo ai prati e ai cespugli di pino mugo.



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