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Il dio che danza

Di Andrea Cafarella • marzo 30, 2021

Dioniso, ovvero «nato due volte».

La versione più comune che riguarda la storia della nascita di questa divinità lo vede figlio di Semele (figlia a sua volta di Cadmo e Armonia) e di Zeus che, come suo solito, inganna l’amante travestendosi da mortale. Alla richiesta di Semele – consigliata dalla gelosa Era – di mostrarsi nelle sue vere sembianze, il dio del fulmine si nega e, di conseguenza, Semele lo rifiuta nel suo letto. A quel punto la collera tempestosa del signore dell’Olimpo si abbatte su di lei senza pietà alcuna. Fortunatamente sarà Ermete a salvare Dioniso cucendolo nella coscia del padre, dove potrà finire di maturare e infine nascere. Perciò Dioniso è il «nato due volte».

Eppure, questa versione della storia, con i suoi intriganti dettagli, riportata da Robert Graves nel suo I miti greci, è solo una delle molte: c’è chi lo vorrebbe figlio di Demetra, di Io, di Dione, Persefone, Lete. Poiché Dioniso è un dio oscuro e multiforme, ibrido. «Un dio straniero che viene da lontano, che cambia identità, che viene fatto a pezzi e si ricompone, che è uomo e animale, uno e molti, che finisce in catene, che le spezza, che libera». Il dio della metamorfosi. Un dio che è tutti e nessuno, la cui storia si svolge in una moltitudine sterminata di luoghi lontani e vicini.

«Il filo conduttore della mistica storia di Dioniso è il diffondersi del culto della vite in Europa, in Asia e in Africa settentrionale», poiché «il vino non fu inventato dai Greci», ci informa Graves. Dioniso, che nel mondo latino veniva identificato con Bacco, è conosciuto universalmente e comunemente come il dio del vino, difatti. Ed è proprio attraverso questo prezioso succo d’uva fermentato – e l’estasi mistica che poteva provocare durante festività dedicate al dio – che Dioniso ha potuto viaggiare il mondo, trasformandosi, prendendo le sembianze di quelle che oggi conosciamo come altre divinità, mascherandosi per penetrare i cuori della gente, ispirando danze e feste, per portare a tutti la buona novella: bisogna che moriate per rinascere, nascere due volte, per trovare nella metamorfosi l’autenticità, nella trance la chiave del viaggio trasformativo, per arrivare al più profondo Sé.

Paolo Pecere ha coraggiosamente deciso di seguire questa suggestione e andare alla ricerca di alcuni dei culti legati alle diverse rappresentazioni di Dioniso. Ovviamente non c’è alcuna pretesa di scientificità nel legare concettualmente e simbolicamente gli xapiri, spiriti della tribù amazzonica degli yanomami, a Shiva, il dio ermafrodito della tradizione indù. Tuttavia Pecere, sulla scorta degli studi del celebre antropologo Ernesto De Martino, segue proficuamente un’intuizione, a mio modo di vedere geniale, e si spinge oltre. Partendo dal tarantismo salentino si lascia guidare dalle tracce misteriche della divinità fino in Asia e in Africa, per poi attraversare l’oceano, dove non ci si potrebbe mai aspettare la presenza del dio. Eppure ritroviamo una stessa attitudine nelle popolazioni che abitano la grande foresta amazzonica e infine scopriamo a New York, la città simbolo del capitalismo americano, che Dioniso si può incontrare anche qui, è ovunque ed è sempre insieme a noi, a suo modo.

Il dio che danza. Viaggi, trance e trasformazioni (nottetempo, 2021) è un libro straordinario e illuminante. Si presenta come un insieme di resoconti di viaggi, tuttavia straripa i suoi argini e diventa saggio antropologico e filosofico di grande intensità e ampissime vedute. Un libro trasformativo che ci permette di fare una ricognizione del pensiero altro e dell’Altro, oltre a indicarci una via per ricongiungerci alla nostra parte più irrazionale, nascosta dentro, nel fondo più fondo. Una via estrema: la trance, il viaggio immobile. Questo «uscire dal corpo» per raggiungere altri stati di coscienza viene compiuto ancora in molte parti del mondo tramite diverse pratiche che hanno dei tratti in comune e delle peculiarità davvero interessanti; e Paolo Pecere riesce a restituircene – tramite un racconto volutamente parziale e soggettivo – la vera essenza, il cuore. Esse nascondono un insegnamento, una lezione primordiale dall’immane importanza ontologica e in qualche modo anticapitalista, ecologica e – permettetemi l’azzardo – sciamanica.

Lo fa rievocando pensatori e studiosi fondamentali, da Ernesto De Martino e Carlo Ginzburg, fino a Jared Diamond e Mark Fisher, passando per Širokogorov, Mircea Eliade, Lévy-Bruhl, tracciando parallelismi arditi con Walt Whitman, Rimbaud, i classici greci, e tanti, tantissimi altri autori, fino all’ultimo breve capitolo che guarda alla poesia di Auden con grande sapienza letteraria, intelligenza e una spiccata sensibilità lirica.

Il testo ha una ricchezza talmente vasta e una tale densità che se ne potrebbe scrivere per molte pagine, e sono sicuro che questo libro servirà, a me e a molti altri, come mappa, come esempio. Tuttavia, per non tediare oltre il lettore, ho pensato che fosse più sensato invitare l’autore, Paolo Pecere, a rispondere a qualche domanda per parlarci di alcuni dei temi principali che innervano questo straordinario lavoro.

Il dio che danza. Viaggi, trance, trasformazioni di Paolo Pecere

Il cammino di Paolo Pecere inizia dal tarantismo in Puglia, sulle orme di Ernesto de Martino, e, seguendo collegamenti storici e mitologici, prosegue in India Meridionale, dove nel theyyam gli dei entrano nel corpo dei danzatori, appartenenti alle caste piú basse...

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Questo libro ha molteplici forme, diversi livelli di lettura, esattamente come il soggetto che vuole raccontare: una divinità mutevole, con molti nomi e altrettanti volti. Potresti raccontarci chi è «Il dio che danza» che fa da trait d’union dei viaggi e delle realtà che racconti nel libro? Quando hai capito che eri a caccia di un dio, e cosa è cambiato da quel momento? Come questa divinità ha guidato – prima e dopo che ne fossi consapevole – il tuo viaggio?

“Il dio che danza” è Dioniso, è Shiva, ma è anche – secondo l’ipotesi del mio libro – in genere la figura di un’entità che anima e agita il corpo di una persona in stato di trance, o estasi. Il mio libro nasce dall’idea di raccogliere alcuni scritti e riflessioni su viaggi fatti in un periodo di tempo piuttosto esteso, dal 2005 al 2020. Selezionando il materiale mi sono reso conto che per molti anni, in alcuni dei miei viaggi, ero andato sulle tracce di fenomeni di trance da possessione, come il theyyam in Kerala, le danze sufi in Pakistan e il vodu in Benin. Mi sono anche reso conto che la mia chiave di lettura di questi fenomeni proveniva dall’infanzia, da un vivo interesse per il semplice atto di immaginare di essere altre persone, di incorporare altre voci, e che la Puglia, regione di origine della mia famiglia, era il luogo elettivo in cui avevo iniziato a sperimentare questa pratica, che da adulto mi avrebbe portato alla scrittura narrativa.

Ma quando si è trattato di pensare a fare di quella selezione un libro, grazie all’interessamento di nottetempo e in particolare di Alessandro Gazoia, ho capito immediatamente che c’era un filo conduttore in questi viaggi e che il punto di partenza era stata la lettura, negli anni degli studi universitari, de La terra del rimorso di Ernesto de Martino. In quel libro si raccontava del tarantismo, la pratica sincretistica di danze e rituali coreutici che in Puglia stava già scomparendo a fine anni ’50. De Martino congetturava che il tarantismo fosse collegabile a fenomeni simili, lungo due assi: diacronico, mediante le analogie con i rituali dionisiaci e con il coribantismo nella Grecia classica (analogie sostenute dalle riflessioni di Platone sulla “giusta follia” dei posseduti e dei poeti); sincronico, con rituali africani come lo zar e il vodu, e il candomblè afroamericano. D’altra parte, De Martino nel suo libro più ambizioso, Il mondo magico, aveva avviato la sua ricerca sulla crisi dell’esistenza individuale (la “presenza”) e sul modo in cui la magia l’ha affrontata in diverse civiltà mediante un paragone con lo sciamanismo, altra forma di distacco da sé e incorporazione di altre voci: perciò la mia indagine ha finito con l’includere storie di possessione e sciamanismo. Nel libro ho seguito queste e altre tracce, geografiche, storiche e filosofiche, ritrovandomi a cercare manifestazioni del “dio che danza” in quattro continenti, partendo proprio dalla Puglia, con una domanda di fondo: cosa resta nel mondo di oggi di queste tradizioni – da noi sparite, almeno nella loro forma rituale, e in parte confluite in pratiche come il rave o certo teatro – e quindi cosa resta del sostegno fondamentale che l’incorporazione rituale di altre personalità dava all’esistenza di persone, spesso appartenenti a gruppi socialmente marginalizzati?

In prima istanza, come indica con grande chiarezza anche il sottotitolo del libro, questo tuo lavoro racconta di viaggi, anche se di varia natura. Primo fra tutti il viaggio inteso in senso classico: sei stato in diversi continenti alla ricerca delle tradizioni più disparate, che avessero dei tratti in comune molto precisi. Partiamo dalla Puglia per spingerci fino alla punta sud più estrema dell’India, e successivamente arriviamo in Africa attraverso il Pakistan; infine penetriamo il continente americano dal Brasile per risalirlo fino al limite nord della foresta amazzonica, per poi ritrovarci inaspettatamente tra le folle di Manhattan. (Potete facilmente ripercorrere l’itinerario tramite la mappa, che segue e completa l’indice, nelle prime pagine del libro). Cosa significa per te viaggiare, spostarsi fisicamente da un luogo a un altro e che ruolo ha e ha avuto nella tua ricerca?

Viaggiare per me significa conoscere. Anche solo cambiare aria è un processo di conoscenza. C’è un senso di liberazione da una certa oppressione, che va chiarito: non si riduce alla vacanza dal lavoro, al riposo, quando pure si tratta di ferie. La “vacanza”, la sospensione temporanea della vita ordinaria, è un vuoto che va colmato: si vuole essere di più, non di meno. In viaggio non mi riposo mai, anzi, la vita ha una densità maggiore. Non parlo del viaggio limitato alla visita ai siti turistici, in cui pure apprendiamo qualcosa ma non siamo coinvolti sul piano personale. Si tratta di interrompere la continuità della vita in cui ci definiamo entro determinate coordinate sociali – in famiglia, sul lavoro, sui social network, e così via – e mettersi alla ricerca di altre forme di vita e di società, che a volte rispecchiano parti di noi non integrate o latenti. Bisogna diventare stranieri a tutto, anche a noi stessi, e osservare. Spostarsi verso un luogo ignoto è per me un’operazione rabdomantica, mossa dall’emozione, guidata da letture e impressioni da approfondire, smentire o modificare, mirando a un ricongiungimento con qualcosa che sfugge nella vita normale. Nei viaggi mi innamoro dei luoghi e delle persone che ci vivono, poi continuo a esplorarli per anni, con lo studio. Diventano parti di me. In questo processo ho trovato un altro motivo per comporre questo libro: c’è un’analogia tra l’esperienza del viaggiatore e quella dei posseduti. La vacanza dell’io mette in contatto con altre personalità.

Proseguendo la lettura del sottotitolo troviamo la parola trance. Già nelle primissime pagine veniamo avvertiti di questo doppio senso del viaggio: «In un altro senso si viaggia restando immobili, come lo sciamano che inspira la polvere di una pianta, si stende e abbandona temporaneamente il corpo». Il dio che danza è praticamente una ricognizione di tradizioni rituali che prevedono la trance; pur chiamandola – non poco significativamente – in molti modi diversi: possessione, estasi mistica, eccetera. Proviamo a posteriori a dare una definizione di cosa sia la trance anche accennando alle diverse modalità e tradizioni che racconti approfonditamente nel resoconto dei tuoi viaggi?

La trance in generale è uno stato di abbassamento o perdita della coscienza dell’ambiente circostante e del controllo dei movimenti. Nel libro racconto diversi casi di trance da possessione, indotta da specifici rituali che di solito comportano danza e musica. Non approfondisco il suo aspetto psicofisico, ma il suo significato culturale. Si tratta – dal tarantismo al vodu, dall’āveśa indiano al wajd islamico, dal candomblé allo sciamanismo amazzonico – di una trance spesso cercata per diversi scopi, come cura, divinazione, conoscenza di sé e del mondo. Tutto questo avviene diventando altri, e incontrando altri personaggi: la trance è un transito in un altro mondo. Non sempre la perdita della coscienza è completa, c’è spesso un residuo di consapevolezza, per cui le azioni avvengono come in un “teatro vissuto”, che etnologi come Leiris e Métreaux paragonavano a uno stato tipico dell’infanzia. Qui si trova un possibile principio comune di comprensione per chi, come noi, proviene da una cultura in cui la trance rituale non è più prevista.

La terza parola del sottotitolo è quella che mi interessa di più: «Trasformazioni». Non perché le altre due siano meno importanti ma perché quest’ultima mi sembra una sorta di “approdo” della ricerca stessa che hai compiuto durante queste spedizioni. Non è mai esplicitato precisamente a cosa si riferisce ma io credo che voglia indicare una caratteristica molto interessante che accomuna tutte queste tradizioni e il tuo stesso percorso: la trasformatività, chiamiamola così. Voglio dire la capacità di questi rituali di trasformare l’individuo e così anche di dare spazio al cambiamento collettivo. In quasi tutti i capitoli parli di una funzione sociale di queste danze, tanto da spingere il discorso fino alle lotte indigene e a ragionamenti di carattere ecologico (sui quali torneremo). Cosa intendi con «Trasformazione»? E ancora: questo percorso come e in che termini ti ha cambiato, ovvero: ha trasformato l’osservatore?

Come hai detto tu, in tutti i fenomeni che ho raccontato c’è una volontà di trasformazione, che prima di tutto è trasformazione di sé. Le donne e gli uomini che partecipano alle performance si liberano temporaneamente delle proprie identità sociali, e, nel proprio corpo, lasciano apparire altre persone. Questa trasformazione implica di solito una tensione sociale. I tarantati erano braccianti, i danzatori sufi del Pakistan appartengono a una minoranza religiosa spesso attaccata con violenza, i partecipanti ai rituali del vodu e del candomblé, tra Africa occidentale e Brasile, appartengono a popoli che ancora vivono le conseguenze della colonizzazione e appartengono a fasce sociali marginalizzate. Questa situazione si trovava già nell’antenato per noi più diretto di queste pratiche, la religione dionisiaca. Nelle Baccanti di Euripide, che uso come traccia nel mio itinerario, un dio-straniero, che è anche un animale non-umano, ispira uno scatenamento di energie che, in quanto è rifiutato dalle autorità, colpisce l’ordine della città. I rituali bacchici vennero vietati anche nella Roma repubblicana, perché il Senato temeva che vi si radunasse un “secondo popolo”, composto tra gli altri di immigrati. Lo stesso timore si trova nella cultura dei brahmani indiani rispetto ai posseduti di casta infima, o tra i bianchi schiavisti rispetto alle riunioni del vodu, che a Haiti si accompagneranno in effetti alla rivoluzione. Quindi, la trasformazione è un modo di elaborare un bisogno individuale, che sul piano collettivo può assumere un significato politico. Lo sciamano Davi Kopenawa è il caso esemplare: le sue visioni, indotte dalla polvere yakoana, sono contrapposte alle parole dei bianchi in una vera e propria controffensiva contro l’invasione dei territori indigeni.


Brasile 2019, foto di Paolo Pecere

Il racconto dei viaggi è sempre intervallato e arricchito dalla lettura dei testi. Il dio che danza, oltre a essere ricolmo di citazioni, referenze usate con grande intuito, presenta anche dei libri nel libro, che vengono letti e raccontati dal narratore durante l’esperienza stessa del viaggio. L’Africa fantasma di Michael Leiris, i resoconti di viaggio di Alexander von Humboldt, i libri di William Dalrymple, gli Incontri con Ogotemmeli di Marcel Griaule, Chatwin, Lévi-Strauss e molti altri. Vi è una terza dimensione del viaggio, quella della lettura, che mi sembra molto interessante. Cosa significa viaggiare leggendo e chi è «il lettore di questo libro, altro io fuggiasco tra le righe»?

I libri, lo studio, sono fondamentali per il viaggio. Un viaggiatore ignorante, che non legge i resoconti di altri viaggiatori, studiosi, non può vedere o capire gran parte di quello che si trova e che succede nei luoghi visitati. I libri, d’altra parte, non bastano a conoscere un luogo, ma è nella lettura che di solito ognuno di noi ha formato le prime idee di luoghi lontani. Questi libri possono dare un’immagine parziale e deformata, ma anche questa serve a orientarsi, per contrasto. I libri che raccontano un luogo com’era mille, duecento o ottanta anni fa ci permettono di capire meglio come cambiano i luoghi e gli sguardi dei viaggiatori: un cambiamento che, nell’epoca del capitalismo globale e del turismo di massa, è particolarmente rapido e spesso violento. Io, da lettore, seguo le tracce di libri che ho letto prima, durante, e dopo i miei viaggi, per interpretare quello che c’è oggi. Nel distacco del lettore dalle circostanze trovo una somiglianza con l’esperienza del viaggio e con quella della trance: mettendosi a leggere, se il libro suscita la nostra attenzione, si inizia un percorso di esplorazione, con tanto di parziali immedesimazioni in personaggi e scene immaginarie. In certi casi, se il libro o la nostra attitudine ci aiutano, leggendo si avvia una riflessione sulla realtà che si è lasciata dietro. L’esperienza del lettore (come quella del bambino che fantastica), è un altro possibile punto di partenza per comprendere quello di cui parlo nel libro, come suggerisco già nella prima pagina.

Molti degli autori citati sono antropologi o comunque autori molto vicini all’antropologia. Inoltre, l’ultima parte del libro si avvicina con molta intelligenza, senza mai farsi trascinare dal facile entusiasmo, verso alcuni testi fondamentali della cosiddetta ontological turn in antropologia. Soprattutto tramite le parole di Eduardo Viveiros De Castro e la sua Metafisica cannibale. Libro cardine del Prospettivismo cosmologico amazzonico. Proprio in questo libro Viveiros De Castro scrive palesemente: «L’antropologia è pronta ad assumere integralmente la propria nuova missione: quella di essere la teoria-pratica della decolonizzazione permanente del pensiero». Io trovo sempre più sensata questa affermazione e penso che sia molto interessante e giusto che vi si avvicini un filosofo – e la filosofia più in generale. Qual è la tua posizione nei confronti del Prospettivismo e più in assoluto, da studioso di filosofia, nei confronti dell’antropologia tout court?

Quando studiavo filosofia pensavo, tra le altre cose, di specializzarmi in antropologia. I punti di contatto tra le due discipline sono moltissimi, e del resto i precursori di questa disciplina accademica, nata all’apice degli Imperi coloniali moderni, sono filosofi come Montaigne e Rousseau. La torsione autocritica dell’antropologia di fine Novecento rispetto al suo modello ottocentesco, in cui le culture “primitive” erano considerate inferiori, ha portato molti antropologi, da Lévi-Strauss a Geertz, a riflettere filosoficamente su nozioni come cultura, progresso, soggetto, mito, conoscenza. Il prospettivismo di Viveiros De Castro è una posizione che, radicalizzando questa rivalutazione dei punti di vista altri, propone di prendere ontologicamente sul serio la prospettiva delle culture amazzoniche, per esempio quella sugli animali non umani. Secondo questa prospettiva, gli animali non umani vivono a tutti gli effetti in società e vedono il mondo con gli occhi di una cultura analoga a quella umana. Questa prospettiva mette in discussione il nostro concetto di natura: non si tratta di diverse culture che vedono diversamente una stessa natura – quella che la nostra scienza conosce e domina meglio di altre – ma di diversi “mondi”. Dietro questa proposta radicale c’è un importante confronto tra la nostra visione della natura, fondata sulle idee di creazione e produzione, e quelle amazzoniche, fondate sulle idee di scambio e trasformazione. In questo confronto gli etnologi da tempo hanno indicato il principio di un discorso ecologico che può attingere alle idee amazzoniche. Nel mio libro, tuttavia, critico il prospettivismo perché con questa radicale distinzione ontologica tra “mondi” impedisce un confronto invece di promuoverlo. Viviamo nella stessa natura, che le popolazioni amazzoniche vedono come organismo animato (ma anche da noi qualcosa del genere non è mancato e non manca): se così non fosse, quel confronto di idee e quella interpretazione ecologica non avrebbe senso.

Torniamo al concetto di Trasformazione, in quanto uno dei nuclei di senso del prospettivismo amerindio è proprio la Metamorfosi. Per affrontare il tema nel tuo libro giustamente ti affidi a uno dei libri più illuminanti scritti negli ultimi anni, La caduta del cielo (nottetempo, 2018) nel quale Davi Kopenawa, sciamano yanomami, si racconta e racconta il suo popolo grazie all’ausilio dell’antropologo Bruce Albert. Cosa è la metamorfosi per gli yanomami e come può il pensiero amerindio darci degli strumenti per cambiare vita, sia come individui che come società umana al completo, e forse permetterci anche (come suggerisce un altro libro importante di Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, nottetempo, 2017) di attraversare il presente, questo tempo strano e interessante che siamo chiamati a vivere?

Gli sciamani riescono, con un doppio sguardo, a comprendere i diversi punti di vista, quello umano e quello degli animali. Gli sciamani sono infatti viaggiatori, traduttori, mediatori. In alcuni casi, come quello eccezionale di Davi Kopenawa, riescono a comprendere e confrontare anche i diversi punti di vista della loro popolazione e dei bianchi. Grazie a questi mediatori con le loro visioni, le idee delle culture amazzoniche possono risultarci comprensibili, colpirci, indurre un ravvedimento. Lo stesso Viveiros paragona la nostra incapacità di vedere gli spiriti con cui coesistono gli sciamani con quella del re di Tebe nelle Baccanti di Euripide, che solo per un istante realizza la verità: il suo prigioniero, Dioniso, è un toro, è la natura, che sfida le norme della città. I tebani non riescono a vedere il dio e fanno una brutta fine. Si tratta di non ripetere il loro errore.

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Andrea Cafarella collabora abitualmente con «Cattedrale», «Altri Animali», «L’Indiscreto» e «Stanza 251» dove scrive critica letteraria, filosofia e narrativa. Conduce la rubrica «Teriantropica. Uno spazio non-filosofico». Ha scritto e scrive anche per diverse altre riviste. Un suo testo è entrato a far parte della raccolta Piccola antologia della peste (Ronzani, 2020 – curata da Francesco Permunian e con illustrazioni di Roberto Abbiati). Ha curato l’introduzione alla prima traduzione in italiano (di Damiano Abeni) della raccolta poetica Controcielo di René Daumal (Edizioni Tlön, 2020).



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