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I racconti delle donne, scelti da Annalena Benini

Di Rosa Carnevale • marzo 07, 2019

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Elsa Morante era sempre in guerra con se stessa, anche nel pieno del successo letterario. Anche quando sposò Alberto Moravia continuava a sentirsi inferiore, lei di famiglia umile, lui borghese e al centro della vita culturale e intellettuale romana. Generosa al limite della follia, imprudente, sempre in cerca di amori assoluti, perennemente insoddisfatta nella vita e nel lavoro.

Virginia Woolf non riusciva a smettere di scrivere, presa quasi da una febbre violenta che la spingeva a voler raccontare e dalla consapevolezza di essere una scrittrice di successo. Le storie le si accalcavano in testa e lei voleva seguirle tutte, raccontare i suoi personaggi, farli uscire dalla fantasia e permettergli di camminare per il mondo. Per Kathryn Chetkovich, invece, scrivere è un’eterna battaglia. Non è facile quando il tuo compagno si chiama Jonathan Franzen e pubblica libri di successo mondiale. Lei invidia la sua scrittura, invidia il suo ruolo, invidia il suo essere uomo, cerca di sviscerare le sue sensazioni ma vive in un continuo rimpicciolimento di sé .

Le protagoniste del volume sono tutte donne che hanno deciso di fare della scrittura la loro ragione di vita.

Eccole le protagoniste de I racconti delle donne, un’antologia curata da Annalena Benini, giornalista culturale de Il Foglio, per Einaudi. Donne che riflettono sul loro essere donne, sulla loro condizione di madri, di bambine, di amanti. Donne che raccontano altre donne. Spaventate, caotiche, intense, a volte scorrette.

Le donne di Edna O’Brien, per esempio, non vogliono dire la cosa esatta, sostenere la posizione giusta. Sono libere di sbagliare, libere anche di essere deboli, egoiste, goffe, ossessionate da un uomo, esuberanti, ingenue, generose, selvagge. L’autrice irlandese scava a fondo in ognuna di loro. Sono donne che raccontano la vita così com’è, la sopportazione altissima, l’ironia che salva, l’eleganza, il limite, la maternità, gli uomini, le loro fragilità e il loro desiderio profondo di essere libere. “Libertà è poco”, dice Clarice Lispector. “Quello che desidero non ha ancora un nome”. Donne nel mondo delle donne. Fuori dal solito affresco di eroine affrante, abbandonate o vittoriose c’è un mondo vivissimo che chiede di essere raccontato e queste scrittrici sanno farlo affidando alla loro penna la descrizione di tumulti, sentimenti, ansie.

Se c’è qualcosa che le accomuna è sicuramente questa: “Scrivere è una maledizione che salva”, dice ancora la Lispector. Le protagoniste del volume di Annalena Benini sono tutte donne che hanno deciso di fare della scrittura la loro ragione di vita. Anche quando il tempo era poco e sembrava non bastare mai. Nell’estate del 1961, Alice Munro compiva trent’anni e un quotidiano di Vancouver pubblicava questo titolo: “Casalinga trova il tempo di scrivere racconti”. Sotto campeggiava una grande foto della scrittrice con le sue belle bambine bionde, Sheila e Jenny, nel giardino di casa. Eppure, nonostante l’impegno con la famiglia e il lavoro di scrittura forsennata portato avanti durante i pisolini delle figlie, la Munro con i suoi racconti è riuscita ad aggiudicarsi il Premio Nobel per la Letteratura nel 2013. Anche Natalia Ginzburg cercava di conciliare, non sempre riuscendoci, i figli con la scrittura. E Italo Calvino le suggeriva: “Cara Natalia, la smetta di fare bambini e scriva un libro piú bello del mio”.

Le donne dei racconti raccolti da Annalena Benini sono donne che dicono spesso “Noi”, costituendosi come soggetto consapevole, che sono capaci di attraversare la sofferenza e risalire a galla dopo aver nuotato negli abissi, di trasformare il dolore in una storia divertente come fa Nora Ephron quando racconta del suo divorzio. «Everything is copy», dice, «tutto è ispirazione», anche i tradimenti del suo secondo marito, romanzati poi nel celebre Affari di cuore nel 1986. «Sono sopravvissuta. Ci ho scritto un romanzo. Con i soldi guadagnati ho comprato una casa».

Non sempre sono femministe ortodosse ma sanno cosa vuol dire essere donne. Sono pronte a disegnare tutte le difficoltà, i deliri, i risentimenti, le esplosioni e le esasperazioni dell’incontro con l’altro. D’altra parte, quello che vogliono, queste donne sembrano saperlo bene.

Come scrive Kathryn Chetkovich, la moglie “invidiosa” di Jonahtan Franzen: «Io volevo quello che vogliono sempre le donne: sentirmi legittimata». Nella scrittura come nella vita.

Ecco la nostra intervista ad Annalena Benini, che di questa festa sovversiva di ragazze è stata l’animatrice, raccogliendo e immedesimandosi di volta in volta nelle venti storie che animano il libro.

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Come è nato il progetto del libro? Quando hai pensato di voler raccogliere in un volume così corposo le testimonianze eterogenee di diverse donne scrittrici?

L’idea di questo libro è nata dall’entusiasmo per i racconti e dal desiderio di mostrare una complessità femminile. Avevo voglia di mettere insieme grandi scrittrici e nuove scrittrici, nel momento in cui raccontano le donne. Nel sesso, nell’amicizia, nel tradimento, nell’ambizione, nell’amore, nell’ossessione, nella forza e nella debolezza.

Hai immaginato il tuo libro come una festa…

Sì, come la festa dell’intimità e della verità. La festa di quando ci si confida tutto, in assoluta libertà e fiducia, che è quello che fanno le donne quando sono insieme: raccontano. Lo fanno, con la letteratura, anche Virginia Woolf, Grace Paley, Alice Munro e le altre. Mettono a nudo se stesso, condividono, svelano, e l’idea della confidenza e della scoperta mi entusiasma.

“Scrivere di donne è un atto politico perché significa prendersi cura di loro”, ha detto Grace Paley. Sei d’accordo? Anche tu, spesso, scrivi di donne…

Sono completamente d’accordo, ed è stata proprio Grace Paley a rivelarmelo. Non sapevo che lo stavo facendo. Anche questo è il bello dei racconti delle donne: si capisce sempre una cosa in più, e io ho cercato di farlo anche attraverso la vita di queste scrittrici. Le ho studiate e nel libro ho provato a raccontarle.

“Difficile parlare di una categoria di «scrittrici» o di «scrittura femminile» senza l’impressione di stuzzicare una ferita che non guarirà fintanto che continui a stuzzicarla”, scrive Kathryn Chetkovich in uno dei racconti contenuti nel libro, Invidia. “D’altra parte, per quanto controverse, quelle categorie continuano ad avere un senso anche se non sempre siamo d’accordo su quale sia”. Pensi che si possa parlare di «scrittura femminile»?

Non mi piace. Esiste il mestiere di scrivere, in questo credo più di tutto. Poi esistono anche uomini e donne, e come ha detto la grande Edna ‘O Brien a Philip Roth, “credo che sia differente essere un uomo ed essere una donna, molto differente”. Edna spiega che un uomo ha dietro le quinte della vita un intero corteo di donne che lo aspettano: potenziali mogli, amanti, muse, infermiere. Pensa a Tolstoj, pensa a Nabokov, ma pensa a qualunque scrittore. Per le scrittrici non è così, non hanno questo vantaggio.

Che cos’hanno in comune Elsa Morante e Joan Didion, Chimamanda Ngozi Adichie e Marguerite Yourcenar, Natalia Ginzburg e Clarice Lispector?

Hanno in comune il desiderio di raccontare, e la forza, il talento, la dedizione per farlo. Hanno in comune la capacità di prendere una cosa piccola e farla diventare immensa, e di dirci chi siamo perché le loro parole ci risuonano dentro. Anche quando Marguerite Yourcenar parla di Saffo, io sento che sta parlando a me.

Che ruolo ha il racconto, forma letteraria di elezione di questa tua antologia? Spesso viene ancora considerato un fratello minore del romanzo ma credo che in questi anni ci sia stato un forte riscatto di questo genere e brevità e compiutezza sono finalmente viste come caratteristiche apprezzate.

Questa antologia è fatta solo di racconti. In alcuni casi, come per Clarice Lispector e Yasmina Reza, sono racconti che compongono un romanzo. Sono stata indecisa, a un certo punto, se inserire stralci di saggi, lettere, ma ho preferito che ci fosse sempre, appunto, la compiutezza. Leggere un racconto significa arrivare alla fine con un senso di appagamento.

Mai come oggi il rapporto tra uomini e donne appare inquieto e controverso. C’è una rabbia atavica che scuote le donne da sempre e che oggi ha trovato forme e manifestazioni organizzate come quelle legate alle rivendicazioni del #metoo o a movimenti come Se non ora quando o Non una di meno. Cosa pensi dell’impatto di queste dimostrazioni e come vedi la situazione delle donne in questi anni? Qualcosa si sta muovendo oppure ci sono segnali di un ritorno a tempi più bui che chiama a gran voce il nostro intervento?

Io ho molta fiducia nelle donne e negli uomini. Molta speranza, anche. Credo negli esseri umani, prima di tutto, e non voglio generalizzare. Credo che le donne abbiano fatto un cammino importantissimo, e da un cammino così non si torna indietro. Ma se cediamo a una resa dei conti universale, allora il rischio è la cecità della rivalsa, che non è un passo avanti. Credo che sia in gioco qualcosa di molto importante, la redefinizione dello sguardo sui rapporti fra uomini e donne. Non riguarda soltanto tutto ciò che è attraversato dal sesso, ma anche i rapporti esistenziali, professionali, il rispetto reciproco e la considerazione reciproca. Voglio che mia figlia cresca libera e forte, e che non abbia mai paura.

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Scriveva Carla Lonzi nel Manifesto del gruppo “Rivolta femminile” da lei fondato nel 1970: “La donna non va definita in rapporto all’uomo… L’uomo non è il modello a cui adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna. La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna”. Anche in I racconti dell donne questa differenza tra uomo e donna è ben segnalata da quasi tutte le autrici citate. Perché dobbiamo sempre ricordarci di tenere conto di questa diversità?

Perché siamo diversi, ed è molto interessante, molto costruttivo, anche molto misterioso. E la letteratura ci aiuta a capirci, ci consola, ci esalta, ci fa immedesimare, ci diverte e ci commuove.

È una fortuna essere donna?

Come dice la filosofa Luisa Muraro, è un’indicibile fortuna nascere donna. C’è qualcosa che eccede il confronto con un uomo, ma non per competizione, per nascita. Sono felice di essere una donna e sono d’accordo con Natalia Ginzburg quando dice che le donne purtroppo hanno la tendenza a cadere nel pozzo, cioè in un abisso di dolore. Ma forse quando riemergiamo dal pozzo siamo anche più piene, perché siamo scese nelle profondità dell’essere umano. Di certo siamo capaci di raccontarlo.

Nella tua vita di madre e sul tuo giornale con la rubrica settimanale “Il Figlio” hai un osservatorio privilegiato sulle nuove generazioni. Le ragazze di oggi continuano a cadere in quel pozzo o hanno una forza diversa dalla nostra?

Credo che la tendenza alla malinconia, all’insicurezza, al tormento esista sempre. Io dico sempre a mia figlia, che ha quasi tredici anni: ci riesci. Sei capace. Sei brava. Devi impegnarti, ma ce la fai. Andrà tutto bene. Credo che il modo in cui guardiamo le nostre figlie sia importante, la sicurezza e la forza partono dal nostro sguardo su di loro.

«We have one another»: abbiamo solo noi stesse, ha scritto in una poesia Grace Paley, scrittrice, poetessa e attivista statunitense nata da una famiglia ebrea di origine ucraina. Ci prendiamo cura l’una dell’altra. Quanto conta per noi donne questo prendersi cura? Siamo veramente solidali tra noi?

Il racconto di Grace Paley che ho scelto si intitola proprio Amiche ed è meraviglioso, straziante e divertente al tempo stesso. Ci prendiamo cura l’una dell’altra: è esattamente così. Tra amiche ci confessiamo cose che un uomo non può neanche immaginare, ed è una grande iniezione di forza: la sensazione di essere comprese. Ma alla domanda: siamo veramente solidali tra noi?, rispondo che non lo siamo abbastanza. Non parlo più di amiche, per le quali ci getteremmo nel fuoco, ma di altre donne. E’ un peccato, è un segno di debolezza, è un dolore.

Come festeggerai questo otto marzo?

Lavorerò, più di sempre perché è appena uscito questo libro di cui sono così felice, e se qualcuno mi regalerà le mimose le accetterò, senza scandalizzarmi, e se mi diranno Auguri, dirò grazie. E se mi offriranno una caramella in treno perché sono una donna, ne riderò e forse me la mangerò. Ma se qualcuno mi dirà qualcosa di scemo sul mio ruolo naturale di donna e di madre, diventerò una belva.

Chiudi il volume con una piccola poesia di Patrizia Cavalli: “E adesso tutti mi chiamano signora / Certo sarebbe peggio signorina”…

Sono versi ironici, saggi, per me stupendi. C’è l’esercizio sublime del distacco. Li amo perché è vero: adesso tutti mi chiamano signora. E per un po’ mi ha dato fastidio. Poi ho letto Patrizia Cavalli, e mi sono sentita di nuovo fortissima, e nel pieno di me stessa.

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Rosa Carnevale (1983), giornalista. Ha collaborato con Artribune, L'Officiel, Rolling Stone Italia, Zero, Grazia.it.

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