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L'insegnamento senza fine di Giordano Bruno

Di Francesco D'Isa • luglio 06, 2020

Ogni qualvolta subisco un sopruso, trovo sollievo nella lettura di Giordano Bruno. Il suo atteggiamento collerico ne fa un ottimo compagno di rabbia, mentre il suo sfortunato esempio – finire sul rogo pur di non abiurare – mi spinge sempre a una maggiore diplomazia. Lo storico Michele Ciliberto, nel suo bel libro Il sapiente furore. Vita di Giordano Bruno, recentemente ripubblicato da Adelphi, descrive il filosofo come un uomo dalla cocciutaggine e il gusto per la polemica quasi patologici, con l’ovvio contraltare di un disperato coraggio, anzi, di un eroico furore, che lo mise letteralmente nella posizione di “morire per le idee”, per usare le parole del filosofo Costica Bradatan. È un peccato che la Chiesa – tra le poche a superare Bruno in cocciutaggine – non abbia mai ammesso che dar fuoco a quest’uomo sia stato un errore (mi chiedo quando non lo sia), perché Bruno sarebbe un buon santo protettore della libertà di pensiero.

Il sapiente furore di Michele Ciliberto

Lungo l’intera storia del pensiero, il legame tra biografia e speculazione filosofica si è spesso rivelato determinante, ma mai come in Giordano Bruno, che guardava alla propria vita come a un dono degli dèi, in vista di un destino eccezionale.

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So che non mi approverebbe: lui pur di difendere la propria filosofia è finito più volte in carcere e infine sul rogo, io davanti alla sconfitta preferisco minimizzare i danni. D’altra parte il nolano, oltre ad essere un celebre attaccabrighe, non si è mai distinto nella sua capacità nello scegliersi i nemici e modulare le proprie forze. Come scrive Ciliberto,

… decise di attaccare, per mostrare il suo valore e la sua superiorità, uno dei professori di spicco dell’Università di Ginevra, Antoine de La Faye. È, anche questo, un procedimento tipico: farà la stessa cosa nel 1583 a Oxford, decidendo di ingaggiare battaglia contro uno dei più autorevoli esponenti della Athenae Oxonienses, John Underhill. Servendosi – anzi, approfittando – dei contatti che aveva stabilito con i tipografi ginevrini, fece stampare un opuscolo contenente venti errori da lui individuati in una sola lezione del de La Faye. Per farsi conoscere ed apprezzare, Bruno scelse subito la via, al tempo stesso, più semplice e più complicata: scese in campo contro una delle personalità più alte della comunità ginevrina, per dimostrare a tutti di che pasta fosse fatto.

Per poi essere rovinosamente sconfitto e ridicolizzato in ambedue i casi, persino con accuse di plagio. Da una parte è senz’altro una questione caratteriale: conosco persone che, come Bruno, non sono in grado di tollerare la vista di un sopruso senza reagire, spesso anche a proprio danno. Nonostante possa risultare controproducente, è una caratteristica che stimo e credo che se avessimo più individui così il mondo sarebbe senza dubbio più equo – è un peccato che la sopravvivenza di questi integerrimi sia di media più a rischio. Non si tratta solo di persone dal temperamento iracondo, ma dotate di un eroico furore che stabilisce un collegamento diretto tra etica e vita: credono nel frutto del proprio pensiero fino a mettere in gioco il loro stesso corpo. Bruno, ad esempio, crede a tal punto che Cristo sia solo un essere umano, divenuto l’immagine di un culto superstizioso, da bestemmiarlo persino in carcere («potta di Christo, puttana di Dio, Christo can becco») davanti a degli sbigottiti compagni di cella, che non esitano a contare le volte in cui “fa le fiche al cielo” per poi riferirlo agli inquisitori. E crederà a tal punto nelle sue «enormi opinioni», come vennero definite, che falliti i primi tentativi di salvarsi preferì «restare ostinatissimo» e accettare la condanna a morte.

Io non possiedo né questo coraggio né una tale forza nelle mie convinzioni – confido nell’assurdo, dunque non c’è nulla che non possa credere o abiurare, assurdo incluso. Il filosofo nolano però mi insegna che le idee non sono innocui fantasmi, ma proiezioni di prassi e di poteri che spesso non possono convivere con quelle altrui; «è dai frutti che si comprende la pianta: questo era per Bruno il criterio con cui si devono esaminare filosofie, leggi e religioni, assumendo come pietra di paragone la capacità che esse hanno di produrre buoni effetti per il “convitto umano”». Se la bontà dell’effetto dipende dal giudizio di chi lo produce, gli scontri sono inevitabili, perché le filosofie non sono passatempi ma piani d’azione sul mondo. La «radicale – e insuperabile – sproporzione dell’infinito rispetto al finito, su tutti i piani» che per Ciliberto impernia il pensiero di Bruno, non sembra un valido motivo né per appiccare il fuoco né tantomeno per essere arsi vivi, eppure custodisce in sé la definizione di un mondo che, secondo alcuni, non doveva aver spazio.

Tra i molti motivi per cui si dà o si toglie la voce, il peggiore, soprattutto in filosofia, è voler ascoltare solo la propria. Foucault ha suggerito che abbiamo eliminato le torture in favore delle prigioni per sostituire la spettacolarizzazione della pena con il controllo invisibile; allo stesso modo, abbiamo rimpiazzato i roghi con un più elegante – e più efficace – silenzio. Resta l’arroganza del potere, che in qualche modo riesce sempre a prevaricarti e sconfiggerti. La vessazione accade perlopiù nell’ombra, per nascondere il computo delle angherie subite, ma talvolta, quando è certa l’impossibilità di una reazione, chi detiene il potere si palesa, per godersi lo spettacolo di un’arroganza impunibile.

Nell’opera di Giordano Bruno filosofia e politica si mescolano spesso, ma sembra sempre che il desiderio del nolano sia di dar voce alla prima attraverso la seconda, mai viceversa – purtroppo per lui, il suo carattere iracondo, ambizioso e intransigente mal si sposava con delle teorie all’epoca inaccettabili. A questo si aggiunge una certa goffaggine diplomatica, come quando ebbe la brillante idea di scrivere che le donne senza prole «denno esser stimate più vanamente nate al mondo che un morboso fungo, qual con pregiudicio de meglior piante occupa la terra; e più noiosamente che qualsivoglia napello o vipera che caccia il capo fuor di quella» in un testo dedicato alla regina Elisabetta d’Inghilterra.

Uno dei tratti che più amo di questo filosofo è che, probabilmente anche in virtù del sapersi incompreso, si rivolgeva a chiunque potesse capirlo e non solo agli studiosi. Scrive Ciliberto,

Rifiutò dunque completamente l’idea di un sapere astratto, senza effetti pratici; voleva individuare «precetti sommamente utili per tutte le funzioni dell’animo»; si rivolgeva con il suo lavoro a tutti gli uomini, senza alcuna distinzione di sesso, di ceto, di casta, di funzione, di ruoli pubblici e privati, politici o religiosi

e ancora

… tra difesa delle traduzioni e scelta del volgare c’era un nesso diretto; si trattava, in entrambi i casi, di lavorare a una nuova «primavera» del sapere e della civiltà, spezzando le barriere delle vecchie accademie e dei vecchi centri di potere sia filosofico che civile e religioso. È precisamente l’obiettivo che Bruno sviluppava nei dialoghi londinesi, traducendo la «nova filosofia» in un «nuovo» linguaggio per «nuovi» interlocutori.

Purtroppo questi nuovi interlocutori, come spesso accade per i pensatori più acuti, sono arrivati in ritardo. Eppure il filosofo, per quanto raccontasse le sue tesi sempre con una nota più alta del dovuto, non lo faceva con la certezza di essere nella ragione, perché, come scrisse egli stesso nel De umbris, «è già molto poter custodire sotto il velo dell’ombra quel che non potresti mai afferrare nella sua nuda essenza». Come scrive Ciliberto, Bruno sapeva che la verità «è una sorta di apocalisse, una rivelazione che si attua attraverso una visione; si realizza, poi, nella “monade che è la natura”, non nella “monade che è la divinitade”; infine – last, but not least –, la visione della verità non è mai definitiva, acquisita una volta per tutte: essa si dà, e si compie, in un istante che è, simultaneamente, di illuminazione e di oscuramento». La sicumera del filosofo, dunque, sembra dovuta piuttosto al fondato timore di non essere ascoltato.

Guardare alla tragica fine di Bruno come a un evento del passato, legato alle barbarie dell’Inquisizione, sarebbe un errore – che poi è lo stesso evidenziato dal sopracitato Foucault in Sorvegliare e punire, quando rompe l’illusione di una trasformazione delle pene per via di istanze umanitarie. Anche in questo caso è cambiata la tecnica, ma non il risultato: quel che prima era un rogo è diventato una complessa rete di relazioni di potere che ostacolano le voci più ardite finché queste non si adeguano in qualche modo. Può trattarsi del filtro del mercato, che di rado permette l’emersione di complessità che non sono in linea col pensiero corrente o che non fanno della polemica, dello scandalo o del “social score” un metodo per vendere. Oppure del filtro di certe vetuste caste, che, come divinità annoiate, ti ignorano se non parli per loro e ti bloccano quando la tua vera voce corre il rischio di essere ascoltata. Se da una parte hai vinto la libertà di parola, dall’altra puoi cantare solo in playback o la tua musica non arriverà a nessuno.

Per fortuna non è sempre così – non è mai stato sempre così – ma si sbaglia chi guarda al nolano come a un filosofo sfortunato, il cui destino non si ripeterebbe nella contemporaneità. È difficile dirimere dove sia in atto un’ingiustizia e dove l’invalicabile ostacolo sia l’assenza di talento – ed è dunque comprensibile l’altalena umorale di Bruno, nel suo oscillare tra lo sconforto e una forsennata (e spesso eccessiva) fiducia nelle proprie capacità. Non essere capiti è la falsa consolazione di molti incapaci, mentre la statistica suggerisce che esistono più incompetenti che incompresi – e se è certo che i mediocri non superano quasi mai il muro della storia, chi ha davvero qualcosa da dire riesce spesso a farlo, anche se talvolta a un pubblico che non conoscerà. Il silenzio, come insegna Giordano Bruno, si può rompere, ma per farlo si deve essere ancora disposti a tuffarsi nelle fiamme, con eroico furore.

Francesco D’Isa (Firenze, 1980), di formazione filosofo e artista visivo, dopo l’esordio con I.(Nottetempo, 2011), ha pubblicato romanzi come Anna (effequ 2014), Ultimo piano (Imprimatur 2015), La Stanza di Therese (Tunué, 2017) e saggi per Hoepli e Newton Compton. Direttore editoriale dell’Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste.

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