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La filosofia nasce per insegnarci a morire (e a vivere)

Di Francesco D'Isa • febbraio 16, 2021

Nel suo Le vite dei filosofi, la più antica storia della filosofia (antica) mai scritta, Diogene Laerzio inserisce spesso un paragrafetto sulla morte di ogni pensatore. Si tratta per lo più di decessi nobili ma ordinari, ad eccezione del più punk tra i filosofi, Diogene, che stando ai racconti morì per aver mangiato un polpo crudo o per aver trattenuto il respiro, e di Pitagora, ucciso da inseguitori perché si rifiutò di attraversare un campo di fave (Pitagora odiava le fave). Questa dovizia nel descrivere il trapasso dei sapienti non deve meravigliare, perché nell’antichità morte e filosofia procedevano spesso accanto. Una sentenza epicurea lo dice chiaramente: «Vuoto è il discorso del filosofo se non contribuisce a guarire la malattia dell’anima». Lo stesso Epicuro è celebre per aver liquidato la morte con una massima che Laerzio attribuisce a Diogene – e che sembra adatta al suo caratterino: «come potrebbe essere un male, se non ci accorgiamo quando è presente?». I filosofi antichi insomma non si limitavano a parlare della morte: si esercitavano a morire.

La vicenda più celebre è quella di Socrate, che, a dispetto della condanna capitale, rifiuta di fuggire da Atene e accetta la sentenza, pur reputandola ingiusta. Platone ne rende un’immagine molto vivida. Questo è Fedone, che la descrive nell’omonimo dialogo:

È straordinario ciò che provai a stargli accanto: assistevo alla morte di un amico, eppure non ero colto da pietà, perché mi appariva felice, Echecrate, nel comportamento e nelle parole: morì così tranquillamente e nobilmente, che mi resi conto che egli, pur andando verso l’Ade, non vi andava senza volontà divina e che, giunto colà, sarebbe stato felice, se mai qualcun altro lo è. Perciò non fui colto da alcun senso di compassione, come sarebbe parso naturale in chi è presente ad un lutto; d’altra parte non provai neppure piacere, pur discutendo di filosofia, come eravamo soliti — tali, infatti, erano i nostri discorsi. Era in me una sensazione veramente strana, una mescolanza insolita di piacere e dolore, al riflettere che egli tra poco sarebbe morto.

D’altra parte lo stesso Socrate mal tollera le lacrime degli amici e li esorta letteralmente a – lo dico perché qui è appropriato – prenderla con filosofia. Il motivo è che per Socrate la morte è il coronamento della vita del saggio, in quanto «...quelli che si dedicano rettamente alla filosofia non si occupano di altro che di morire e di essere morti». E aggiunge: «Se questo è vero, sarebbe assurdo preoccuparsi per tutta la vita soltanto di questo e, quando esso giunge, addolorarsi di ciò che da tempo desideravano ed avevano a cuore». Chi legge potrebbe scambiare queste affermazioni con battute atte a esorcizzare la tragicità del momento, ma si tratta di un aspetto molto parziale di ciò che che anima Socrate. Il nostro pregiudizio è dovuto anche al fatto che il rapporto con la morte è mutato molto nei secoli, come evidenzia Philippe Ariès in Storia della morte in Occidente. Ariès scrive che

«(..)abbiamo illustrato due atteggiamenti davanti alla morte. Il primo, che è insieme il più antico, il più duraturo e il più comune, è la familiare rassegnazione al destino comune della specie, e può riassumersi in questa formula: Et moriemur, moriremo tutti. Il secondo, che appare nel XII secolo, esprime l’importanza attribuita in tutta l’età moderna alla propria esistenza individuale, e può tradursi in quest’altra formula: la morte di sé. A partire dal XVIII secolo, l’uomo delle società occidentali tende a dare alla morte un senso nuovo. L’esalta, la drammatizza, la vuole impressionante e dominante. Ma, al tempo stesso, già si occupa meno della propria morte, e la morte romantica, retorica, è innanzi tutto la morte dell’altro; l’altro il cui ricordo e rimpianto ispirano nel XIX e XX secolo il nuovo culto delle tombe e dei cimiteri».

E ancora, «nello specchio della propria morte, ogni uomo riscopriva il segreto della sua individualità. Dalla metà del Medioevo in poi, l’uomo occidentale ricco, potente o letterato, riconosce se stesso nella propria morte: ha scoperto la morte di sé».

Un maggiore attaccamento all’io – che il buddismo legge come un’illusione causa del dolore e della paura della morte – porta un mutare dell’atteggiamento nei confronti della propria scomparsa, che vive una fase di tragicità del Romanticismo fino ad arrivare alla negazione e patologizzazione dell’era moderna. L’immagine del moribondo che si ritira dalla vita dopo aver adempiuto agli ultimi doveri terreni viene sostituita in epoca moderna dall’idea di uno strappo doloroso, causa di un tormento insanabile per chi resta. Gli spettri e I fantasmi cari ai Romantici perseguitano il mondo dei vivi perché chi abbandona la terra sopravvive nel dolore e terrore di chi la percorre ancora.

Intendiamoci, non credo che tutti gli antichi morissero di buonumore, tutt’altro. È però verosimile che col tempo sia andata a scomparire l’idea di un’educazione alla morte, che in Occidente spettava alle religioni, e, prima e accanto ad esse, alla filosofia. Abbiamo progressivamente perduto lo scopo pratico della filosofia: imparare vivere e a morire. Può sembrare strano assimilare l’opera di un Platone a una guida spirituale per i moribondi come Libro tibetano dei morti, ma se leggiamo alcuni passi del Fedone il parallelo non sembra così improbabile:

«Di conseguenza la purificazione, come da tempo diciamo nel nostro discorso, non consiste nel separare il più possibile l’anima dal corpo e nell’abituarla a raccogliersi e a concentrarsi sola in se stessa, a prescindere da ogni parte del corpo, e a dimorare, per quanto è possibile, in presente e in futuro, sola in se stessa, quasi sciolta dalle catene del corpo?»

«Certo», rispose.

«E non è questo che chiamiamo morte: scioglimento e separazione dell’anima dal corpo?»

«Indubbiamente», disse.

«Ma scioglierla, come dicemmo, desiderano sempre e soltanto quelli che filosofano rettamente: questo è l’esercizio proprio dei filosofi, lo scioglimento e la separazione dell’anima dal corpo; o no?»

«Sembra».

«Non sarebbe dunque ridicolo, come dicevo in principio, che un uomo, che si sia preparato per tutta la vita a vivere in modo da essere vicino il più possibile alla morte, al suo sopraggiungere, si addolorasse?»

«Ridicolo; come no?»

«Realmente, allora, Simmia, disse, i veri filosofi si esercitano a morire e, fra tutti gli uomini, non temono affatto la morte. Osservalo da questo. Se essi si oppongono in ogni modo al corpo e desiderano avere l’anima sola in se stessa, non sarebbe una grande assurdità se, quando ciò avviene, avessero paura, si addolorassero e non andassero contenti là, dove giunti hanno speranza di ottenere ciò che amavano in vita».

La morte di Socrate, sebbene non sia bizzarra come quella di Diogene o Pitagora, è più esemplare. Come riporta Diogene Laerzio, a chi gli disse «gli Ateniesi ti hanno condannato a morte» ribatté «E loro sono condannati a morte dalla natura» e quando la moglie gli disse: «tu muori ingiustamente» egli rispose «Perché, tu invece vorresti che morissi giustamente?». Infine, interrogato su quale fosse ciò che dà agli uomini più grande felicità rispose «Il morire felice». È un pensiero in diretto collegamento con colui che viene indicato come il primo filosofo dell’Occidente, Talete, che disse che la morte non si differenzia in nulla dalla vita. A dimostrazione che sin dalle origini la filosofia europea è intrisa dall’ironica sapienza che in Oriente è propria allo Zen, voglio segnalare la risposta di Talete a chi lo controbattè chiedendogli: «Tu, allora, perché non muori?». «Appunto perché non c’è alcuna differenza», replicò.

Tra le scuole filosofiche antiche è celebre l’insegnamento dello Stoicismo, tanto che recentemente è tornato di moda e c’è chi lo considera uno stile di vita più che una filosofia (analogamente a quanto talvolta si dice del buddismo). A mio parere ogni filosofia è uno stile di vita fondato su determinate credenze e anche lo stoicismo ha le proprie. Interessante, ad esempio, è la fede in un ciclo di nascita, crescita, distruzione e rinascita dei mondi, che si risolve in una conflagrazione universale che dà luogo a un nuovo ciclo, identico al precedente, nel quale riappaiono uomini e cose, in un eterno ritorno dell’identico. La reazione dello stoico davanti a questo circolo (di ispirazione pitagorica o addirittura orientale) è analoga a quella di un altro filosofo dell’eterno ritorno, Nietzsche, ovvero il sì alla vita: l’accettazione a tratti eroica e superomistica (perché anche il male esiste ed esisterà sempre) di questo impianto metafisico fin nelle sue estreme conseguenze. Com’è ben sintetizzato nell'Enciclopedia Treccani, per lo stoico

L’impegno del saggio sta quindi nell’adeguarsi al corso fatale e necessario delle cose, persuaso dell’intrinseca razionalità degli eventi, realizzando una sorta di indifferenza (adiaforia) verso i singoli aspetti della realtà. Quando gli sia impedito di seguire questi principi di comportamento, egli saprà scegliere di uscire dalla vita (suicidio) piuttosto che vivere in modo irrazionale. La libertà si realizza così nel saper pensare, adeguandosi a ciò che accade e instaurando un rapporto di simpatia con gli altri uomini e col tutto.

Nei suoi Pensieri, l’imperatore romano e filosofo Marco Aurelio esprime con prosa appassionata la ricerca dello stoico, che «opera e pensa in tutto come se si trovasse in punto di morte». Il saggio non nega il male, anzi, ne fa il suo punto di partenza:

«Come tutte le cose scompaiono in poco tempo, i corpi nel seno dell’universo, i loro ricordi nel seno del tempo! Che cosa sono tutti gli oggetti sensibili e soprattutto quelli che ci seducono col fascino della voluttà o ci spaventano con l'immagine del dolore: quelli infine la cui magnificenza ci strappa grida di meraviglia? Tutto è miserabile e degno disprezzo: tutto è corruzione e morte».

Eppure, con un passo indietro rispetto all’immersione nel ciclo infinito del cosmo, lo stoico – sempre un po’ in bilico tra eroismo e indifferenza – riconosce e accoglie un nuovo metro di giudizio con cui osservare le miserie del mondo («Non disprezzare la morte ma accoglila di buon grado perché anch'essa è un ente tra quelli che natura vuole»).

Bene, sembra tutto molto saggio, ma come si fa a raggiungere questo stato così elevato? Gli stoici ammettono che il compito sia arduo, tanto che per Crisippo vivono al massimo due saggi per ogni ciclo cosmico. Per quel che riguarda il suo periodo Crisippo si tira fuori con modestia, in favore di Omero e forse Socrate – va detto che l’Oriente è decisamente più generoso o ottimista, coi suoi miliardi di bodhisattva. La saggezza, comunque, è una questione di esercizio, ma l’allenamento è così duro che taluni si affidano alla fede nella reincarnazione nella speranza di portarlo a termine, perché una sola vita non basta. Come scrive Pierre Hadot nel suo Esercizi Spirituali e Filosofia Antica,

«Per tutte le scuole filosofiche, la principale causa di sofferenza, di disordine, di incoscienza, per l’uomo, è costituita dalle passioni: desideri disordinati, timori esagerati. Il dominio della cura, delle preoccupazioni, gli impedisce di vivere veramente. La filosofia appare dunque in primo luogo come una terapia delle passioni. Ogni scuola ha il metodo terapeutico suo proprio, ma tutte collegano questa terapia a una trasformazione profonda della maniera di vedere e di essere dell’individuo. Gli esercizi spirituali avranno precisamente lo scopo di realizzare tale trasformazione».

Ogni scuola filosofica e religiosa propone i suoi esercizi spirituali e l’elenco sarebbe lunghissimo, a dispetto dei molti punti in comune. Per attenersi alla sola filosofia antica scopro sempre grazie ad Hadot che Filone di Alessandria ha fornito due elenchi di esercizi, che hanno il merito di offrire un panorama abbastanza completo di una terapia filosofica di ispirazione stoico-platonica: «Una di queste liste elenca: la ricerca (ζήτησις), l’esame approfondito (σκέψις), la lettura, l’ascolto, l’attenzione (προσοχή), il dominio di sé (ἐγκράτεια), l’indifferenza alle cose indifferenti. L’altra nomina successivamente: le letture, le meditazioni (μελέται), le terapie delle passioni, i ricordi di ciò che è bene, il dominio di sé (ἐγκράτεια), il compimento dei doveri».

Se dovessimo giudicare i consigli non in virtù della loro bontà, ma della loro semplicità, temo che escluderemmo i più saggi. In questo concordo con gli antichi, quando sostengono che per la felicità serve un duro allenamento. Quanto alla direzione da prendere, lascio che sia ancora Marco Aurelio a suggerirla (o ordinarla, è pur sempre un imperatore).

«Si deve anche osservare che persino le conseguenze accessorie dei fenomeni naturali hanno una loro grazia e attrazione. [...] Così i fichi, quando sono molto maturi, si spaccano; e, nelle olive mature, proprio la vicina marcescenza aggiunge al frutto una speciale bellezza; e le spighe che si curvano verso terra, e lo sguardo feroce del leone, e la bava che esce dalle fauci del cinghiale: queste cose e molte altre ancora, considerate solo in se stesse, sarebbero lungi dal sembrare belle a vedersi. Eppure, poiché questi aspetti secondari accompagnano dei processi naturali, contribuiscono a rendere la loro bellezza più adorna e affascinante. Di modo che se qualcuno possiede l’esperienza e la conoscenza approfondita dei processi dell’universo, non ci sarà quasi nessuno dei fenomeni che accompagnano per concomitanza i processi naturali che si manifesti senza qualche attrattiva. Costui mirerebbe le fauci spalancate d’una belva effettivamente viva con un godimento non inferiore a quello provato nel contemplare tutte le loro imitazioni proposte da pittori e scultori. I suoi occhi puri sarebbero capaci di vedere una bellezza matura e anche in fiore nei lineamenti d’una vecchia e d’un vecchio, una specie di fascino amabile in quelli dei bambini. Molti altri casi del genere si presenterebbero: non allietano chiunque, bensì colui che ha davvero familiarità con la natura e con le sue opere».

Ritroviamo la stessa idea anche nei Quaderni della filosofa e mistica Simone Weil, che appuntò lo stesso concetto con lucente sintesi: «Il bello: realtà senza attaccamento».

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Consegnare al pubblico un’edizione integrale di Platone – in un unico volume – è una risposta nuova e di grande rilievo a una sfida intellettuale che dura da oltre venti secoli. Il contatto diretto con gli scritti platonici è un’esperienza di straordinaria ricchezza. Nei dialoghi di Platone vengono a fondersi tutte le precedenti tendenze del pensiero greco ma soprattutto si afferma il primato di un’inesausta ricerca della verità su ogni facile e presunta “affermazione della verità”.

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Francesco D’Isa (Firenze, 1980), di formazione filosofo e artista visivo, dopo l’esordio con I.(Nottetempo, 2011), ha pubblicato romanzi come Anna (effequ 2014), Ultimo piano (Imprimatur 2015), La Stanza di Therese (Tunué, 2017) e saggi per Hoepli e Newton Compton. Direttore editoriale dell’Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste.

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