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Confondere il lettore. Conversazione con Teresa Ciabatti

Di Rosa Carnevale • marzo 30, 2021

“I fatti e le persone di questa storia sono reali. Fasulla è l’età di mia figlia, il luogo di residenza, altro”. E “altro” potrebbe significare tutto, o quasi.

Il narratore che parla non è assolutamente attendibile, sembra avvisarci Teresa Ciabatti nelle prime pagine del suo ultimo romanzo, Sembrava Bellezza, edito per Mondadori. La tentazione di usare la prima persona, però, è ancora troppo forte. Anche dopo il successo de La più amata (secondo classificato al Premio Strega 2017) e le conseguenti polemiche scaturite da quel memoir pieno di inesattezze. “Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quattro anni, e sono la figlia, la gioia, l’orgoglio, l’amore del Professore”, dichiarava convinta tra quelle pagine la scrittrice, promettendo di rivelarsi a tutti noi con nome e cognome. Il Professore era Lorenzo Ciabatti, primario dell’ospedale di Orbetello e lei raccontava la sua infanzia passata a bordo piscina in una sorta di castello dorato, trasformatasi poi in poco tempo in un’adolescenza impietosa di ragazzina grassa, irascibile, manipolatrice, inadatta.

Il lettore pensava così di averla davanti, Teresa Ciabatti in persona. Teresa che non nasconde niente, neanche le cose più indicibili. Che aggredisce con una lingua affilata, buttandoci addosso materiale incandescente da maneggiare con cura. Mettersi a nudo sembra una sorta di necessità per alcuni scrittori ma immaginare e romanzare è altrettanto importante per chiunque lavori con le parole. Ingrandire, esagerare, ritoccare. Non si tratta di raccontare piccole bugie. Per Teresa Ciabatti la pagina rappresenta in un certo senso la vita vera, quella che ammette nelle interviste di non aver vissuto, quella immaginata. Ricordiamocelo: è solo la scrittrice che con la sua grandezza gioca con quella moda della letteratura contemporanea che è l’autofiction. Altro non è che il vecchio pendolo che oscilla tra realtà e finzione. E un patto narrativo non può mai tradire.

Così, dopo una pausa di pura fiction con Matrigna (Solferino, 2018), Teresa Ciabatti torna a far parlare un personaggio in cui istintivamente la cerchiamo nuovamente, scrutiamo per scoprire tra le righe cosa ci sia di vero e cosa di costruito, quanto di lei e quanto di un’altra donna.

La protagonista di Sembrava Bellezza è una scrittrice di mezza età. Una donna biondo castana dal guardaroba fornito, desiderata, applaudita per i suoi successi letterari. Allo specchio però c’è anche la madre fallita in menopausa che ha difficoltà a parlare con la figlia ventenne, la donna separata, la difficoltà di fare pace con la propria storia di adolescente che non risplende. La medaglia ha sempre due facce. Accanto al successo c’è sempre la frustrazione, a fianco del presente camminano gli spettri del passato. E proprio a trascinare la protagonista indietro nel groviglio scuro del passato arrivano Federica, la migliore amica del liceo, e la sorella Livia, la cui bellezza irraggiungibile si è cristallizzata per sempre a causa di un’incidente terribile che ha lasciato dietro di sé un grave ritardo mentale.

Sembrava Bellezza è un libro di donne, dove gli uomini che contano sono pochi. Livia, Federica, Simona, Emanuela e poi Marilyn.

Un giardino di vergini suicide, “ragazze fragili che siamo state. Ragazze non amate”.

La scrittura, a tratti volutamente irritante, graffia senza risparmiare, mostrandoci la vita e i suoi accadimenti con coraggio, verità, cinismo. Inutile mettersi in salvo da certi sentimenti, sembra dire Ciabatti. Li proviamo tutti. Iniziamo quindi a cercare anche noi stessi dentro queste donne, non solo la scrittrice. A turno siamo Federica, Anita, Livia o l’io narrante.

Chi sono le madri? E le figlie? Confondere il lettore sembra essere lo sport preferito de La più amata. Chi è la più fragile? Che in un momento sia incarnata da Livia è un caso. Siamo tutte fragili a turno. “Esiste una ragazza trasversale, un’idea di ragazza, ombra spettro, il contrario di ideale, una creatura che passando il testimone abbiamo rappresentato tutte”.

E poi esiste la mente umana, con il suo funzionamento rizomatico che ci porta avanti e indietro sulla linea nel tempo e ci fa perdere nelle innumerevoli strade create dalla nostra memoria.

Il qui e ora è fatto da infiniti frammenti di quello che è stato o di quello che abbiamo pensato che sia stato. “Ognuno individua dolore e gioia dove non li individuano gli altri. Addirittura il piacere risiede in luoghi diversi, anfratti emotivi a seconda della persona. È forse il piacere, tra i sentimenti umani, il mistero più grande”.

Perché a formarci, nel bene e nel male, è sempre quello che abbiamo sentito, non quello che è realmente accaduto.

Sembrava bellezza di Teresa Ciabatti

Ad accoglierci tra le pagine di questo romanzo è una donna, una scrittrice, che dopo essersi sentita ai margini per molti anni ha finalmente conosciuto il successo. Vive un tempo ruggente di riscatto, che cerca di tenersi stretto ma ogni giorno le sfugge un po' di più. Proprio come la figlia, che rifiuta di parlarle e si è trasferita lontano.

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Sembrava Bellezza ha avuto da subito un’ottima accoglienza. E adesso la notizia del Premio Strega. Il libro è tra i dodici candidati. Come stai vivendo questi mesi pieni di appuntamenti?

Sono molto felice di come il libro è stato accolto dai lettori. C’è un grande lavoro di promozione ovviamente in questo periodo ma dal mio punto di vista portarlo avanti da casa con dei collegamenti online è meno faticoso rispetto alla normalità. Le presentazioni sul divano mi si addicono. Sono fondamentalmente una persona molto pigra.

Ne La più amata scrivevi “Sono una fallita di mezza età con una prospettiva di successo che diminuisce di anno in anno, ce la farò - a trentun anni - ho ancora qualche possibilità - mi rincuoro a quaranta - non ce la farò mai - mi arrendo a quarantaquattro, riscopritemi postuma”. Adesso che hai successo come ti comporti?

Con La più amata ho avuto un successo breve, che è durato una stagione. Questa preoccupazione per il successo l’ho attribuita anche alla mia protagonista. Con la differenza che lei soffre molto di più per l’oblio che è pericolosamente in agguato e arriva per ogni scrittore. Si tratta di un successo piccolo comunque.

Piccolo? Un best seller arrivato secondo al premio Strega?

È tutto relativo. Non stai parlando certo con la Rowling che ha scritto Harry Potter (ride). Ecco, quel piccolo risultato lì (calca molto su “piccolo”) non mi ha cambiata perché è arrivato a un’età tarda. Un’età in cui il mio metro di misura ormai consolidato era il fallimento. Quindi anche il fatto che che quella congiunzione fortunata sia durata così poco non mi ha scombussolata. Sono ritornata serenamente alla mia vita normale. Quarantaquattro anni di esistenza nell’ombra non si cancellano facilmente. Quando il successo arriva nella mezza età (ride) per fortuna non ti cambia.

Neanche il riconoscimento come grande scrittrice è riuscito quindi a scalfire quell’idea di fallimento che ti porti dentro da quando sei ragazza?

No, e questa la trovo una cosa meravigliosa. Secondo me è una grande forza. Da una parte è vero che non si riesce a provare grandissima gioia per il risultato. Ma questa è anche una sorta di difesa. Perché dall’altra parte, quando perdi quel piccolo successo non riesci a rimanerci troppo male. E per gli scrittori si tratta veramente di successi stagionali. A settembre, ma anche già a luglio nessuno parlerà più di me, anzi nessuno si ricorderà più di me. I libri finiscono e poi per fortuna arrivano altri libri. A meno che tu non sia Saviano o Michela Murgia, non puoi essere sempre sulle pagine dei giornali.

O Teresa Ciabatti…

No, loro hanno un peso intellettuale importante, intervengono quotidianamente su questioni fondamentali. Io vivo solamente in funzione dei mie libri. Il mio andamento, la curva a cui sono abituata, passa sempre per qualche mese di luce e poi di nuovo ombra. Fa anche parte del mio carattere, non riuscirei a stare così tanto sotto i riflettori.

Anche la protagonista di Sembrava Bellezza è una scrittrice di successo…

Di successo breve, andando avanti tra le pagine capiamo che questa poveraccia si crede di successo ma non è considerata più da nessuno.

Già nel titolo, Sembrava bellezza, c’è in effetti un’indicazione fondamentale sul tempo che passa e restituisce qualcosa in maniera molto diversa da come lo avevamo percepito.

È un’indicazione anche su quello che è andato perduto. E anche questa rappresentazione del successo è infatti fasulla. È un “sembrava”. È lei, la protagonista, che vorrebbe essere di successo ma un conto è quello che uno si racconta, a cui aspira, un conto sono gli elementi di realtà che in maniera impietosa ti vengono incontro e ti smentiscono continuamente.

Come già per La più amata, il lettore si chiederà sicuramente quanto c’è di reale e quanto di costruito nel tuo libro. In poche parole, quanto c’è di Teresa. Nelle prime pagine però siamo avvisati: “I fatti e le persone di questa storia sono reali. Fasulla è l’età di mia figlia, il luogo di residenza, altro”. E “altro” potrebbe significare tutto… Il narratore è inaffidabile?

Totalmente inaffidabile. All’epoca de La più amata non avevo ancora capito bene quale fosse il rapporto personale che avevo con l’io narrante che abitava i miei libri. La costruzione dello stile che uso oggi è nata da un ragionamento complesso, fatto anche per sottrazione, limatura. La voce de La più amata mi aveva spaventata, ero letteralmente terrorizzata dalle reazioni che ne erano scaturite. Ho impiegato diversi anni invece per comprendere che quella voce lì per me è importante. A livello personale la uso come una sorta di vendetta, di liberazione. Le mie protagoniste riescono ad agire e parlare in un modo che non potrebbe mai essere il mio. Attraverso questi finti alter ego, posso finalmente vivere e avere la mia rivalsa. Io non sono in grado di rispondere alle provocazioni, non reggo i conflitti, non sono spavalda. Vivo solo nell’immaginazione. Fin da ragazzina immaginavo le possibili risposte alle offese che ricevevo, sognavo di compiere azioni sfrontate che non ho mai messo in pratica una sola volta. Quelle azioni e quelle parole represse trovano la loro via per esistere dopo quarant’anni solo nelle pagine dei miei libri.

“In letteratura vale la sineddoche”, hai detto. Esageri spesso situazioni ed azioni nei tuoi libri e a volte parti da sensazioni piccole e personali per raccontare questioni più grandi che ci riguardano tutti…

Quello che aspiro a fare con i miei libri è raccontare il male scavando nel lato meschino e basso che alberga in ognuno di noi. La natura umana è fatta di luci e di ombre. Io ne parlo in prima persona, senza denunciare. Il narratore non è dalla parte del bene e del giusto, è dentro a quello che non funziona, ne fa parte. Così come tutti siamo responsabili di quello che accade nella nostra società. Penso che sia fin troppo facile non prendersi la responsabilità di quello che succede intorno a noi. Tutto quello che non va e che riusciamo a distinguere come male avviene nella nostra contemporaneità e anche solo per questo ci riguarda. A partire da quelle piccole storture e bassezze che racconto nei miei libri e faccio agire ai miei personaggi.

Rispetto ai tuoi libri, nella vita reale invece Teresa Ciabatti che persona è?

Noiosissima, direi grigia. Tanto metto colore nei miei personaggi tanto io mi sento invece una figura sbiadita. Vado a letto presto, sto sempre a casa. La mia giornata ideale è quella in cui posso non uscire, neanche per fare la spesa. Ti farei aprire il mio armadio per capire che tipo di persona sono.

Cosa ci troveremmo?

Due golf blu, due maglioncini neri, pantaloni blu e pantaloni neri. Nient’altro. Da una certa età in poi sono sempre stata così. Tutta la mia fantasia l’ho messa nella scrittura. E questo ha fatto in modo che si creasse un contrasto enorme tra il mondo che metto in scena e quello che vivo.

Possiamo dire però in un certo senso che sei la somma di quello che vivi e di quello che scrivi. Forse con le storie dei protagonisti dei tuoi libri, da La più amata a Matrigna fino a Sembrava Bellezza stai realizzando una sorta di puzzle dietro cui troveremo la vera Teresa…

Credo che ogni scrittore alla fine componga anche involontariamente questa costruzione di un sé dentro alle sue pagine. Scrivere significa scavare in profondità dentro se stessi. La figura che viene fuori alla fine, mettendo in fila tutta l’opera di chi scrive è fatta di tanti pezzettini della propria vita. Non è detto che sia esattamente un ritratto fedele dell’autore ma all’interno ritroveremo sicuramente i suoi desideri, le ambizioni, le paure, le zone buie. L’opera è anche l’autore per tutto quello che non è e non è riuscito ad essere.

Recentemente hai di nuovo cancellato il tuo profilo Facebook. Lo avevi già fatto dopo La più amata. Cos’è successo?

Mi distraevo troppo. Facebook in realtà mi è servito tantissimo per mettere a punto la voce de La più amata. Quando sono sbarcata sul social ho pensato subito di usarlo portando avanti un racconto. Se avessi parlato solo della mia vita non avrebbe avuto nessun senso. Non faccio niente di esaltante, mi sveglio, porto mia figlia a scuola, faccio la spesa a volte. Non c’è nessuna varietà. Io so vivere solo in questo modo medio, piatto. Non saprei e non vorrei comportarmi in nessuna altra maniera però questo grigiume non interessa a nessuno. Così anche lì ho deciso di usare una voce narrante, piena di eccessi, di pensieri scorretti, di meschinità che raccontava giorno dopo giorno una vita che non era la mia. È stata una palestra narrativa per arrivare poi alla stesura dei miei romanzi ma era tutto finto, compresa la mia data di nascita.

A questo proposito ricordo che a gennaio in bacheca hai dovuto avvisare che non era il tuo compleanno perché i tuoi contatti ti stavano inondando di post di auguri.

Odio gli auguri, soprattutto a quest’età. Avevo messo una data fasulla apposta ma poi mi sono dimenticata di toglierla e non c’è stato niente da fare. Oltretutto con l’aggravante che a quel punto mi ero pure invecchiata di qualche mese, inserendo una data di gennaio e non di maggio. Pensa che rabbia

Come foto del profilo, anche su Instagram, usi sempre un ritratto di Joyce Carol Oates. Ami molto questa scrittrice?

Moltissimo, la sua scrittura mi ha veramente influenzata. L’ho studiata in modo maniacale. Conosco perfettamente le immagini e le parole che ricorrono nei suoi libri. Posso elencarti per esempio tutte le bambole che tornano nell’opera di Joyce Carol Oates. Spesso la scrittrice usa l’espediente della bambola anche come alter ego della protagonista. C’è per esempio la bambola di Sorella mio unico amore che è la vera identità della bambina, poi in Blonde, uscito recentemente per La nave di Teseo compare addirittura la bambola di Marylin che lei riesce a salvare da un incendio e che rimarrà per sempre bruciacchiata, danneggiata, bruttissima.

Marilyn torna tantissimo anche in Sembrava Bellezza, la citi spesso…

Marilyn è un simbolo. Alla domanda che ci facciamo tutti su come si fa a mantenere la bellezza e l’eterna giovinezza, sottraendosi al tempo che passa inesorabile, l’unica, vera risposta la fornisce Marilyn con la sua morte, rimanendo bloccata per sempre in quell’età magica.

Sembrerebbe che i tuoi personaggi facciano fatica a immaginarsi come adulti. Crescere fa paura?

La risposta in Sembrava Bellezza ce la dà il personaggio di Livia. A causa del danno neurologico causatole da un incidente avvenuto in giovinezza a cui anche la protagonista del libro assisterà, si ritroverà incastrata nel corpo di una cinquantenne con il cervello di una sedicenne. Livia cristallizza in sé l’idea di un’adolescenza eterna, di una crescita che si blocca e rimane paralizzata, sfociando nella malattia mentale. Non avendo più memoria è una persona leggera e spensierata, che vive lontana dal dolore e dall’idea del tempo che passa.

Il tuo è anche un libro sul funzionamento dei ricordi. Tra le pagine insisti sulla totale arbitrarietà della memoria…

Ho studiato molto per questo libro, mi sono riletta tutto Oliver Sacks. Ho messo in esergo la descrizione di un caso eclatante di schizofrenia che ho trovato in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. (“La paziente parla molto velocemente, d’impulso, senza discriminazione, cosicché l’importante, e il banale, il vero e il falso, il serio e lo scherzoso sgorgano in un flusso rapido, non selettivo, quasi confabulatorio. Può contraddirsi completamente nel giro di pochi secondi. Dirà di amare la musica, di non amarla, di avere un femore spezzato, di non averlo”). L’ho trovato perfetto per descrivere l’essenza della mia scrittura che mette sullo stesso piano la tragedia e la commedia, l’accadimento importante con qualcosa di frivolo e marginale, lasciando il lettore spesso nella confusione e nello sgomento. Questo è il mio modo di procedere, senza che si debba obbedire a una logica prestabilita e a una gerarchia nell’esposizione dei fatti. Il nesso di causa ed effetto è un’impostura vera, un modo di agire tipico del linguaggio politico. La letteratura invece è altro, è libertà, deve sganciarsi da qualsiasi logica e da quel tipo di imposizione. La memoria funziona così, per esempio, in maniera fondamentalmente anarchica.

Funziona in maniera molto letteraria…

Per questo mi interessava studiarla. È forse la più grande dote letteraria di cui tutti siamo forniti.

Hai citato prima Oliver Sacks. C’è un passo in Il fiume della coscienza in cui proprio Sacks ci mette in guardia dagli inganni della memoria, fornendo esempi di un fenomeno bizzarro: l’affiorare nella sua memoria di ricordi che lui, in realtà, non ha neanche vissuto in prima persona…

La memoria ricostruisce quello che vuole. Per sopravvivenza, per necessità, per motivi che il più delle volte non sono neanche chiari. La memoria è inaffidabile. Tanto quanto i narratori che faccio parlare nei miei libri. È stato molto interessante documentarsi inoltre su quello che succede quando la memoria è danneggiata. E alla fine, leggendo Sacks, Freud, ma anche testi di autori contemporanei (nel libro cito un neurologo di Bologna che parla di disturbi del sonno), mi sono resa conto di quanto la memoria sia anche il nostro più grande peso. È attraverso la memoria che sperimentiamo il dolore.

L’immaginazione e la scrittura possono attenuare questo dolore?

Nel libro ripeto spesso che per me l’immaginazione vale come una sorta di esperienza. Non so se può salvarci ma in alcuni casi ci rende la vita decisamente più tollerabile. Se è vero che la memoria lascia ricordi dolorosi, è anche vero che possiamo colmare quei vuoti e quelle mancanze struggenti con la fantasia. Io ho avuto una giovinezza decisamente poco esaltante. Spesso mi innamoravo di ragazzi che non mi ricambiavano, ho avuto pochissime storie. Eppure nella mia testa non sai quanti fidanzati si sono avvicendati. E io le conto come relazioni vere, che sono andate a riempire e a colmare una vita altrimenti molto vuota.

È uscito da poco un prezioso volume di saggi proprio di Oates per Il Saggiatore, Nuovo cielo, nuova terra, dove credo si tocchi il nodo fondamentale di cui parli. «A certi artisti tocca l’ardua impresa […] di esistere tra due mondi – uno visibile, materiale, “reale”, e l’altro non meno reale, ma indimostrabile fisicamente». Ogni scrittore, in un certo senso, vive questa forma di misticismo, in bilico tra realtà e visione, avvenimenti e finzione. Come si conciliano questi due mondi?

Con la scrittura possiamo riportare in vita i nostri morti, saziare i nostri desideri. Possiamo addirittura riappropriarci di oggetti che abbiamo perduto. È una vera benedizione, un riscatto meraviglioso per chi scrive.

Idealmente così hai potuto riavere anche quella famosa piscina nella villa di tuo padre all’Argentario in cui nuotavi da piccola…

Ho sognato di riavere quella piscina per molto tempo. E con la mia immaginazione ormai di piscine ne ho già avute moltissime. Ho nuotato avanti e indietro, fatto tuffi di testa, immersioni, vasche a farfalla. Tanto che adesso non sento quasi più il bisogno di farmi costruire una piscina vera. I sogni si realizzano anche così, immaginandoseli realizzati.

La tua protagonista è madre separata di una figlia di vent’anni che la rifugge. Anche qui, non c’è molto di Teresa Ciabatti…

No, io sono sposata, sempre con lo stesso marito. Una serena normalità, anche un po’ noiosa. La bambina ha dieci anni e per adesso non è ancora fuggita all’estero. Ha un carattere molto impetuoso per cui tra noi c’è tenerezza ma anche tanta ostilità. Invece il padre lo adora, hanno un rapporto di amore e protezione. Mi dice già “lui è buono e tu sei una persona cattiva”, per intendersi. Eppure non faccio niente, sono sempre a casa (ride) ma se succede qualcosa è sempre colpa mia. Probabilmente la madre di Sembrava Bellezza l’ho immaginata così anche per esorcizzare e sconfiggere la paura di quello che potrebbe accadere anche a me tra una decina d’anni.

Tra le pagine di Sembrava bellezza si intrecciano le vite di personaggi tutti al femminile. I maschi invece sembrano non contare troppo…

Si, è vero. Nelle mie storie se deve morire qualcuno muore sempre un maschio. Pensa che questa volta pensavo di essere stata clemente con il personaggio di Massimo, l’ex bello della scuola. Mi ero proprio detta: “gli uomini qui ne escono bene, non li ho trattati male”. Invece i lettori hanno giustamente avuto l’impressione contraria. Non è deciso a tavolino, però, mi viene spontaneo. E non ho mai voluto trattenermi e costruire personaggi che non sento miei. Questi piccoli squilibri che possono crearsi nei libri raccontano moltissimo della visione dell’autore. Mi piace tutto quello che è fuori misura e rivela qualcosa anche del nostro inconscio.

La scrittrice protagonista con la figlia Anita, Federica, l’amica del liceo ritrovata e la sorella Livia sono invece le molte, diverse facce di un’unica donna.

Ho creato un’unica ragazza trasversale che dagli anni Settanta arriva ai giorni nostri e idealmente prosegue nella vita della figlia della protagonista. Quelle di Sembrava Bellezza sono ragazze normali, che si dibattono tra la voglia di sparire e quella di brillare come reginette della scuola. Un classico.

Sparire come è successo a Emanuela Orlandi, che citi nel libro…

Sì, quell’episodio di cronaca ha segnato tutta la nostra generazione. All’inizio degli anni Ottanta si diceva che nei camerini di un noto negozio di abbigliamento in via del Corso a Roma, sparissero le ragazze. Forse tramite una botola che si apriva all’improvviso. Si pensava che Mirella Gregori e Emanuela Orlandi avessero fatto quella fine. Molte di noi sognavano di sparire, vedevamo i manifesti appesi per la città e immaginavamo di sovrapporre le nostre facce. Sentivamo già gli applausi della folla al ritorno, la benevolenza che avremmo avuto da padri e madri che neanche ci guardavano normalmente. Poi abbiamo capito che Emanuela Orlandi non sarebbe tornata e anche quel sogno di gloria è svanito. Quella è stata la fine della giovinezza per una generazione e nessuno ha desiderato più essere Emanuela Orlandi.

Nei tuoi libri esplori ad alta voce emozioni, traumi, invidie, esperienze senza usare filtri. Su Audible hai realizzato addirittura dei Podcast dal titolo “Invidia – vite che dovevano essere la mia”.

Provo spesso invidia. E ne parlo nei miei libri, mettendo le mani in quelle sensazioni ritenute negative che spesso tendiamo a censurare. Nel momento in cui questi sentimenti vengono nominati e riconosciuti non hanno più quella crescita distruttiva per sé e per gli altri, vengono neutralizzati. Credo sia una cosa positiva.

Con i colleghi scrittori, soprattutto quelli giovani, sembri essere invece molto generosa e ti spendi spesso in elogi e apprezzamenti entusiasti.

Se trovo un bel libro lo grido, lo dico a tutti, lo sostengo. Questo lungo esercizio che ho fatto con me stessa, raccontando e analizzando nel profondo l’invidia e la gelosia mi hanno dato gli strumenti per gestirla al meglio. Così, anche se spesso mi ritrovo a pensare che avrei voluto scrivere io quei libri, riesco comunque a gioire per averli potuti leggere.

Sono usciti dei libri bellissimi in questi ultimi mesi…

Sì, te ne nomino tre: L'acqua del lago non è mai dolce di Giulia Caminito, Quel luogo a me proibito di Elisa Ruotolo, Tre madri di Francesca Serafini.

Nel 2017 al Premio Strega sei arrivata seconda. Ti senti pronta per una nuova avventura, ti piacerebbe vincere questa volta?

È sempre un grande privilegio essere candidati allo Strega, poi uno arriva dove arriva. Se uno è ossessionato dal primo premio non si gode tutti i passaggi divertenti, tutte le occasioni prima e dopo il podio. Mi piacerebbe vincere ma nel caso di sconfitta non sarà una tragedia. Sono vecchia. È improbabile che un vecchio si disperi perché non ha vinto un premio. La vecchiaia serve anche a vedere le cose da una prospettiva diversa, a non caricarle più di pathos. E poi basta con questo mito della vittoria. Lo Strega l’ho sognato, non lo nego. Con l’immaginazione l’ho anche vinto e ritirato già tantissime volte. Sono contenta così. Per me funziona come con i fidanzati, ne ho avuti moltissimi. Tutti immaginari ma, come ti dicevo prima, io li conto come amori veri, come se fossero storie vissute. Così con i premi letterari, ne ho già vinti una serie nella mia mente.

Anche il Nobel?

No, a vincere quello non ci ho mai pensato. Per me fuori dall’Italia non esiste niente. Sono praticamente quindici anni che non vado all’estero. Fa sempre parte della mia grandissima pigrizia. Anche questa però se la guardi dal lato giusto può essere una comodità: i sogni e i desideri vengono automaticamente ridimensionati. Per me oltre allo Strega non c’è altro.

Non hai sogni esagerati da realizzare dunque…

Il mio desiderio vero era la quiete che ho raggiunto, vorrei che rimanesse tutto così per sempre. Ricordo ancora un’intervista di Monicelli che ascoltai da giovane in cui saggiamente diceva: “In fondo uno non si rende conto che la felicità è semplicemente andare d’accordo con i propri familiari e con i vicini di casa”. Ho capito solo da pochi anni quanta verità c’era in quelle parole, in quell’orizzonte che inizialmente mi era sembrato un po’ limitato.

I vicini sono tranquilli?

Estremamente gentili e soprattutto silenziosi.

La più amata di Teresa Ciabatti

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