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Murakami Haruki ha trasformato la letteratura giapponese

Di Giuseppe Luca Scaffidi • aprile 30, 2020

Nel 1960, il critico letterario Dwight Macdonald diede alle stampe un pamphlet destinato a scavare un solco profondo nel dibattito intellettuale degli anni successivi: Masscult and Midcult. Il saggio è incentrato sull’analisi del rapporto tra la sfera della cultura (la vita della mente) e quella della democrazia (la vita contemplativa), due dimensioni dell’agire umano tenute visibilmente distinte per almeno due secoli della storia occidentale ma che, a partire dal Settecento, con la comparsa dei «romanzi ancillari» prodotti dai primissimi «artigiani del Masscult» – come Fannie Hurst e Edna Ferber – sono state interessate da un progressivo processo di contaminazione.

Secondo Macdonald, il mantenimento di questa divisione rigorosa rendeva possibile l’individuazione di due differenti tipi di culture: quella di tipo tradizionale – la cosiddetta Alta Cultura, riportata dai libri di testo – e quella narrativa, confezionata appositamente per il mercato, che potremmo definire Cultura di Massa o, parafrasando l’autore, Masscult, un «compromesso di gusto medio» tra le esigenze delle masse e la spocchia saccente dell’aristocrazia colta. Secondo Macdonald, «l'offuscamento della linea di separazione tra gente comune e aristocrazia, per quanto auspicabile sul piano politico, ha avuto risultati poco felici su quello culturale», dato che avrebbe prodotto un sostanziale svuotamento del ruolo degli intellettuali e una conseguente scarsa resa dell'Alta Cultura in seno al mondo moderno.

Il mestiere dello scrittore di Murakami Haruki

Con Il mestiere dello scrittore Murakami Haruki compie un gesto straordinario e inaspettato: fa entrare i suoi lettori nell'intimità del suo laboratorio creativo, li fa accomodare al tavolo di lavoro e dispiega davanti a loro i segreti della sua scrittura.

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Anche in Giappone la distinzione tra letteratura alta (jun bungaku) e letteratura bassa (taishi bungaku), fino agli settanta del XX secolo, ha costituito un assioma portante in ambito culturale; tuttavia, pur trattandosi di una demarcazione rigida e inscalfibile, veniva concepita in un’ottica completamente differente: gli autori potevano scegliere liberamente di operare su entrambi i fronti, imboccando a seconda della necessità del momento la strada dell’impegno letterario o quella della pura e semplice evasione. Il ricorso a questa seconda opzione era fortemente incentivato dalla prospettiva di ottenere facili guadagni in tempi relativamente brevi e dall’esistenza di una convenzione profondamente radicata all’interno della critica letteraria nipponica, secondo la quale le produzioni destinate alla fetta di mercato più vasta, quella della taishi bungaku, venivano trattate in maniera meno severa dagli addetti ai lavori o addirittura non recensite. Si trattava, quindi, di una dicotomia pienamente istituzionalizzata, che non intaccava in alcun modo il prestigio letterario degli autori, che potevano cimentarsi nella stesura di opere di spessore, inquadrabili nello spazio della jun bungaku e indirizzate a una platea colta, o di romanzi dai toni più leggeri, destinati a rimpinguare le finanze personali senza troppi affanni, che di frequente venivano pubblicati a puntate su alcune riviste femminili e raccolti in volume soltanto in un secondo momento.

Questo stato di cose rimase intatto almeno fino al 1979, quando uno scrittore ventottenne proveniente da Kyoto, Haruki Murakami, decise di sfruttare i rari momenti di lontananza dal Peter Cat, il jazz bar situato del quartiere Sendagaya che gestiva assieme alla moglie Yoko, per ritagliarsi degli spazi da dedicare a una passione mai sopita: la scrittura.

Come riportato dallo stesso Murakami nel saggio autobiografico Il mestiere dello scrittore, il mito fondativo della sua attività da romanziere affonda le radici in un lampo di lucidità che lo investì durante il primo inning di una partita di baseball degli Yakult Swallows, la franchigia meno blasonata della città di Tokyo:

«Mi pare che il primo battitore degli Hiroshima Carp, quel giorno, fosse Takahashi Satoshi. Per gli Yakult era Yasuda. Nella seconda parte del primo inning, Hilton spedì la prima palla di Takahashi sulla sinistra, e conquistò la seconda base. Il bel suono secco della mazza che colpiva la palla echeggiò nello stadio. Ci furono gli applausi. Fu in quel momento che, senza una ragione al mondo, tutt’a un tratto pensai: «Sì, anch’io posso scrivere un romanzo!».

L’avvento di Murakami sul proscenio letterario giapponese creò le premesse per un’effettiva penetrazione di simboli tipici della cultura popolare angloamericana (Elvis, Thelonious Monk, Francis Scott Fitzgerald, Truman Capote, J.D. Salinger, Raymond Carver) all’interno dell’immaginario di un paese che, proprio in quegli anni, si apprestava ad abbandonare ogni velleità isolazionista e a tagliare un cordone ombelicale ingombrante, svincolandosi una volta per tutte dalle catene della tradizione.

La rigida barriera di separazione tra jun bungaku e taishi bungaku (o, scomodando nuovamente Macdonald, tra cultura e democrazia) finì così con lo sgretolarsi definitivamente, unitamente a uno dei leitmotiv più ricorrenti dell’attività letteraria di quegli anni: la tutela rigorosa dei valori giapponesi.

Per comprendere quanto i temi del conservatorismo e della difesa intransigente dei costumi tradizionali fagocitassero il dibattito intellettuale del tempo basti pensare che, solamente nove anni prima, una delle colonne della letteratura giapponese, Yukio Mishima, acceso nazionalista e strenuo sostenitore della restaurazione imperiale, si tolse la vita praticando il seppuku, il suicidio rituale della pratica Samurai, dopo aver occupato gli uffici del Ministero della Difesa in segno di protesta contro l’occidentalizzazione del Giappone, simboleggiata dall’adesione nipponica al Trattato di San Francisco del 1951 e dalla conseguente accettazione passiva della smilitarizzazione del paese.

Siamo alle origini dell’epifania di un nuovo archetipo di autore giapponese, cresciuto nel secondo Dopoguerra, altamente permeabile all’iconografia pop occidentale e immerso in un orizzonte culturale ibrido, in cui la musica jazz, i film western e i romanzi di Hemingway stavano progressivamente contaminandosi con elementi tipici della tradizione nipponica per dar vita a una narrativa meticcia, dai contorni mai completamente definiti.

Il successo dei due romanzi d’esordio di Murakami, Ascolta la canzone del vento (1979) e Flipper, 1973 (1980), raccolti da Einaudi nel 2016 all’interno del volume unico Vento e Flipper, scompaginarono i canoni letterari del Sol Levante, consolidando un processo di rottura dello status quo per molti versi simile a quello delineato da Macdonald in Masscult and Midcult e trasmettendo l’idea secondo la quale la letteratura giapponese potesse finalmente connettersi con il presente.

Un moto di sovversione radicale di cui era stato iniziatore un altro Murakami, Ryu, che solamente tre anni prima riuscì ad aggiudicarsi il prestigioso premio Akutagawa con il suo romanzo di debutto, Blu quasi trasparente, incentrato sulle esperienze di droga e sesso promiscuo dei suoi giovani protagonisti, narrate attraverso l’impiego di un linguaggio di sconvolgente durezza per l’epoca. Una narrazione deflagrante, eretta a partire da un retroterra di stampo marcatamente occidentale in cui le cerimonie del tè, il teatro kabuki e altri topos tipicamente autoctoni cedevano il passo a riferimenti culturali del tutto nuovi, come la poesia di Baudelaire e i dischi dei Doors.

Vento & Flipper di Murakami Haruki

Un giorno, a ventinove anni, Murakami Haruki era allo stadio a guardare una partita di baseball quando, osservando la traiettoria della palla finire nel guantone di un giocatore, ha come un'illuminazione...

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Pur trattandosi di produzioni acerbe o, parafrasando l’autore, di romanzi nati sul tavolo della cucina, scritti nei ritagli di tempo, senza seguire una metodologia di lavoro precisa, adoperando un inglese maccheronico che poi veniva ritradotto in giapponese (non è un caso se, per ben 37 anni, Murakami ha imposto un veto severo sulla traduzione in altre lingue delle sue opere prime), Ascolta la canzone del vento e Flipper, 1973 – che, unitamente al terzo romanzo, Nel segno della pecora, compongono la cosiddetta trilogia del ratto – presentano già alcuni marchi di fabbrica tipicamente murakamiani: la prosa asciutta, i periodi ridotti all’osso, le atmosfere marcatamente beat, l’influenza della grossa mole di noir americani consumati avidamente durante il periodo universitario, la ricerca di una solida identità sul terreno scivoloso della postmodernità, l’amore per la musica jazz, la sacralità della figura femminile e i brodi primordiali di un universo narrativo ancora in fase di costruzione, collocato in una zona di intersezione tra onirismo e nichilismo esistenziale.

Questa doppia anima si consoliderà come un punto fermo dello stile di Murakami a partire dalla pubblicazione del suo quarto romanzo, La fine del mondo e il paese delle meraviglie, in cui vengono oleati gli ingranaggi della complessa struttura binaria che, negli anni, accomunerà la stragrande maggioranza dei suoi romanzi, fondata sull’accettazione aprioristica dell’esistenza di due mondi – il kotchi no sekai (mondo di qua) e l’atchi no sekai (mondo di là) – e caratterizzata da due narrazioni che procedono in parallelo solamente in apparenza ma che, gradualmente, rivelano delle comunanze inizialmente celate all’occhio del lettore: una variante sul tema del realismo magico sudamericano, in cui aldiquà e aldilà sono collegati da un sottile fil rouge, travasando reciprocamente informazioni in un sistema di vasi comunicanti. Come evidenziato da Marco Cubeddu in un prezioso articolo su Nuovi Argomenti:

«Per Murakami la struttura concettuale aldiquà / aldilà rappresenta l’essenza stessa del reale. La parte nascosta, per quanto sconosciuta, è descritta precisamente nel suo velo di mistero onirico e forma l’intelaiatura che ha il compito di reggere e conservare la parte che conosciamo, quella materiale, quotidiana, temporale. Il varco tra le due realtà non è chiuso da una valvola di ritegno: il passaggio è bidirezionale, in un’attestazione che in occidente definiremmo paranormale che però non avrebbe dignità nel mondo di Murakami; nella sua opera non c’è magia o esoterismo. La precisione della lingua giapponese, il suo andamento paratattico aiuta nella descrizione perfetta del surreale. La decostruzione della realtà e la sua divisione in un dualismo in cui i protagonisti vengono immersi come in fluido osmotico rappresenta una deviazione dallo standard letterario giapponese, e sarà presente in quasi tutti i suoi scritti fino al suo ultimo romanzo precisamente costruito con un’architettura evidentemente duale: 1Q84».

1Q84 - Libro 1 e 2 di Murakami Haruki

1984, Tokyo. Aomame è bloccata in un taxi nel traffico. L'autista le suggerisce, come unica soluzione per non mancare all'appuntamento che l'aspetta, di uscire dalla tangenziale utilizzando una scala di emergenza, nascosta e poco frequentata. Ma, sibillino, aggiunge di fare attenzione:« Non si lasci ingannare dalle apparenze. La realtà è sempre una sola».

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Paradossalmente, l’autore giapponese visse la consacrazione definitiva proprio nel momento in cui decise di operare una netta un’inversione di tendenza rispetto ai propri standard abituali. Nel 1987, Haruki Murakami si ripresentò ai propri lettori con Norwegian Wood, un lavoro atipico per i canoni a cui li aveva abituati: realistico, sentimentale, ammantato da tinte fortemente nostalgiche, completamente spogliato da qualsiasi interazione con le sovrastrutture trascendentali che avevano caratterizzato i romanzi precedenti e, in definitiva, ben lontano dai tratti costitutivi di quella doppia anima in bilico tra tangibilità e illusione che lo aveva reso così apprezzato in patria.

Con Norwegian Wood, Murakami esplora la strada del romanzo di formazione, addentrandosi in sentieri hard boiled e avvalendosi per la prima volta di un io narrante dotato di un’identità ben precisa: Watanabe Tōru, un antieroe tormentato modellato sullo stampo dei grandi personaggi della narrativa americana contemporanea, come Holden Caulfield, Jay Gatsby e Arturo Bandini.

Il racconto è innescato dall’ascolto di un’annacquata versione orchestrale dell’omonima canzone dei Beatles, proveniente dalle casse dell’impianto stereo di un Boeing 747 diretto ad Amburgo, e si sostanzia in lungo flashback in cui Tōru ripercorre le tappe che hanno scandito il passaggio dall’adolescenza all’età adulta: una retrospettiva ambientata in una Tokyo in clima di ribellione, uno dei grandi serbatoi di rabbia sociale di fine anni Sessanta, scandito da rivolte studentesche e atti di disobbedienza civile. L’odore acre della morte si instilla nella narrazione sin dalle primissime righe, assumendo di volta in volta forme e significati diversi, dal suicidio inaspettato e rivelatore di Kizuki, il migliore amico di Tōru durante il periodo universitario, alla dipartita cerebrale e fisica di Naoko, la ragazza di cui è innamorato, costretta al ricovero in un istituto di cura per le malattie mentali a causa della sua fragilità psichica, perfetta antitesi dell’altra figura femminile fondamentale del romanzo, Midori, ottimista e vitale, «attratta dal mondo della luce almeno quanto Naoko lo è da quello dell’ombra». Norwegian Wood costituisce una raffinata apologia della fragilità insita nella natura umana, un monumento alle insicurezze e ai dubbi di una generazione costretta a scendere a patti con gli effetti collaterali di un’esistenza sempre più alienante, segnata dai mali dell’incomunicabilità e naufragata nel mare magnum della tecnologia; un monito contro uno stigma sociale profondamente radicato nel contesto giapponese: la difficoltà di riuscire a individuare le parole giuste per esternare i propri sentimenti.

«Ogni volta che cerco di dire qualcosa, mi vengono sempre le parole meno adatte, se non addirittura opposte a quelle che vorrei dire. E se cerco di correggermi, mi confondo ancora di più e peggioro la situazione al punto che alla fine non so più nemmeno quello che volevo dire. È come se il mio corpo si dividesse in due parti che giocano a rincorrersi. E al centro c’è questa colonna immensa e le due parti continuano a rincorrersi girandoci attorno. Ad afferrare le parole giuste è sempre l’altra parte, e io non riesco a starle dietro».

A quarant’anni dall’esordio, Haruki Murakami ha ormai acquisito lo status di autore giapponese più conosciuto al mondo: chiunque abbia mai messo piede in una libreria, per forza di cose, avrà incrociato lo sguardo con la costina di un suo romanzo. Non vi è dubbio che si tratti di uno degli scrittori più influenti del nostro tempo, in grado di esercitare un enorme ascendente sulle preferenze – non soltanto letterarie – di milioni di lettori: tanto per fare un esempio, nell’aprile del 2013, pochi giorni dopo l’uscita di L’incolore Tsukuru Tazaki e i suoi anni di pellegrinaggio, i dischi del compositore ungherese Franz Liszt che contenevano il brano Années de pèlerinage, che ha ispirato il titolo ed è un elemento ricorrente del romanzo, sono letteralmente andati a ruba.

Kafka sulla spiaggia di Murakami Haruki

Un ragazzo di quindici anni, maturo e determinato come un adulto, e un vecchio con l'ingenuità e il candore di un bambino, si allontanano dallo stesso quartiere di Tokyo diretti a Takamatsu, nel Sud del Giappone.

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Probabilmente, il segreto del suo successo risiede nella capacità di aver saputo accogliere milioni di avventori occasionali della letteratura giapponese negli anfratti di quel suo alter-mondo ospitale ma, al contempo, non completamente accessibile: un universo collocato in una dimensione terza, perennemente sospesa tra la realtà e la finzione, priva di coordinate geografiche, sociali e culturali ben precise e che, proprio per questo motivo, ogni lettore, a prescindere dal portato etnico e simbolico di cui è detentore, impara presto ad apprezzare; un microcosmo fatto di metafore inusuali, terre parallele e risvolti magici, in cui fanno capolino creature trascendentali portatrici di significati non sempre decifrabili: che si tratti dei gatti parlanti di Kafka sulla spiaggia (2002), delle due lune che svettano nel cielo in 1Q84 (2009) o di uno dei personaggi più celebri del suo intero pantheon narrativo, l’uomo pecora di Dance Dance Dance (2002), nell’universo di Haruki Murakami la dimensione della metafisica e quella del tangibile interagiscono tra loro senza soluzione di continuità.

L’accettazione di questa conditio sine qua non costituisce la clausola essenziale di un accordo tacito col lettore che, in breve tempo, viene indotto ad accantonare ogni pretesa di distinguere la realtà dall’irrealtà per ottenere in cambio una contropartita inestimabile: la possibilità di tornare a visitare quei non luoghi, accessibili soltanto attraverso il filtro della sua prosa, in cui è facile sentirsi a casa.

Giuseppe Luca Scaffidi è un articolista freelance. Ha collaborato con varie realtà editoriali, tra cui The Vision, Jacobin Italia e DINAMOpress

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