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Dentro l'universo di William S. Burroughs

Di Matteo Moca • gennaio 12, 2022

Nel libro intervista a opera di Daniel Odier, The Job, basato su una serie di incontri con lo scrittore verso la fine degli anni Sessanta, William S. Burroughs, riflettendo sul valore letterario e creativo del cut-up, dice che utilizzando un registratore le possibilità potenziali del racconto di una storia si espandono e si possono così immaginare cose che sulla pagina non potranno mai trovare spazio. Burroughs pensava queste cose verso la fine degli anni Sessanta, quando pubblicherà The exterminator e Minutes to go, riflettendo sulle possibili estensioni del metodo del cut-up quando questo veniva applicato alle registrazioni sul nastro (venivano per esempio letti brani ad alta voce, poi il nastro veniva riavvolto e venivano inseriti, in maniera casuale, nuovi passaggi): ma seppure i supporti non fornissero allora la possibilità di distribuire questi esperimenti, resta altrettanto evidente come lo scrittore di St. Louis sia riuscito nella sua opera a uscire fuori dalla «pagina di stampa» anche con il suo dettato narrativo (si pensi per esempio al romanzo La macchina morbida, a cui Burroughs lavorò negli anni Cinquanta).

Burroughs è uno di quei casi dove l'esistenza umana, parcellizzata, frammentata e quindi restituibile solo attraverso improvvisi riflessi o complesse e fulminee fantasie, è inclusa a pieno titolo nell'opera letteraria. Entrare nella biografia di Burroughs significa allora anche entrare nelle sue opere, e viceversa ovviamente, provare a realizzare una sorta di puzzle dove però bisogna accontentarsi anche di pezzi che non combaciano e di interrogativi che restano insoluti, così come anche affrontare riflessioni talvolta respingenti e lontane dal proprio modo di pensare.

Per fare questo arriva adesso, tradotto da Andrew Tanzi e con la cura di Ottavio Fatica, Il mio passato è un fiume malvagio (pubblicato da Adelphi), volume che raccoglie le lettere dello scrittore americano che vanno dal 1946 al 1973 e che funzionano infatti anche come una raccolta di frammenti di un'autobiografia involontaria. Destinate soprattutto ad Allen Ginsberg, Jack Kerouac e Brion Gysin, queste lettere sono interessanti perché aiutano a ricostruire le relazioni di Burroughs con amici e colleghi, svelando però anche passaggi non scontati e giudizi lapidari. Ci sono, tra le altre, una serie di lettere in particolare che da questo punto di vista risultano intriganti, una a Truman Capote, le altre due a Timothy Leary, proprio perché rivelano al lettore, per contrasto o per assonanza, anche i caratteri propri della sua opera e le inclinazioni naturali del suo pensiero.

A Capote, che viene definito in una lettera a Kerouac assolutamente noioso e banale al pari di altri scrittori contemporanei («Tennessee Williams, Capote, sono banali quanto la cricca del St Louis Country Club dove sono cresciuto – sentivano che ero diverso e non mi hanno mai accettato come uno di loro»), mentre in una lettera a Gysin viene chiesto di fargli qualche scherzo («Truman Capote è in Marocco, qualunque disservizio o disagio riesci a causargli sarà molto apprezzato da queste parti»), Burroughs scrive una lettera fortemente accusatoria criticandolo in maniera aspra per il suo mancato schieramento nella discussione riguardo all'abolizione della pena di morte.

Nella sua biografia sullo scrittore Io sono Burroughs, Barry Miles ricorda di come durante il lavoro su Nova Express Burroughs si cimentasse in cut-up con quadranti di testo di altri autori come lo stesso Capote, ma da questa feroce lettera spedita nel 1970 emerge anche la considerazione di Burroughs sull'autore di A sangue freddo, un pensiero che non subisce alcun tipo di mediazione e che offre allo scrittore la possibilità di muovere da un aspetto politico, come detto relativo alla discussione sull'abolizione della pena di morte («Si è espresso a tutti gli effetti a sostegno della procedura poliziesca ordinaria: ovvero ottenere affermazioni con la brutalità e la violenza, quando un corpo di polizia ragionevole si affiderebbe alle prove piuttosto che a confessioni forzate. Si è ulteriormente immeschinito ribadendo l’argomentazione banale che risuona nelle lettere all’editore ogni volta che viene sollevata la questione della pena capitale: “Perché tutta questa compassione per l’assassino e neanche un po’ per le vittime innocenti”), a un giudizio lapidario di stampo letterario che passa da un tiepido apprezzamento per la prima produzione, dove Capote secondo Burroughs «aveva la possibilità di approfondire determinati aspetti psichici», alla scelta di «vendere un talento che non ha il diritto di vendere»: «Ha scritto un insulso libro illeggibile [A sangue freddo] che potrebbe aver scritto qualsiasi redattore del “New Yorker” – (un periodico reazionario sotto copertura asservito agli interessi dei ricchi storici d’America). […] Ha tradito e venduto il talento che questo reparto le aveva riconosciuto. Quel talento le viene ufficialmente revocato. Si goda i suoi luridi soldi. Non avrà mai nient’altro. Non scriverà mai una frase una tacca al di sopra di A sangue freddo. È uno scrittore finito. Passo e chiudo».

L'altro destinatario a cui Burroughs invia solo due lettere è lo scrittore, psicologo e studioso della psichedelia Timothy Leary. Le due lettere di Burroughs, datate 1961, una da Parigi, l'altra dal consolato USA di Tangeri, sono la testimonianza dell'apprezzamento iniziale di Burroughs rispetto al lavoro di sperimentazione e conoscenza di Leary sulle sostanza psichedeliche. Nella prima infatti Burroughs scrive di trovare importantissimo il suo lavoro, che sarebbe «molto interessato a provare i funghi e a scrivere del trip così come ho fatto con la mescalina», e che sarebbe interessante «stilare un'antologia di scritti prodotti sotto l'effetto dei funghi» (con disegni di Gysin, di cui è ospite a Parigi, aggiunge Burroughs). Ma come nella lettera a Capote, Burroughs illumina anche alcuni caratteri più generali della sua opera: «So che il mio lavoro e la mia comprensione hanno guadagnato in modo tangibile dall’uso degli allucinogeni e credo che un uso più vasto di queste droghe creerebbe condizioni migliori a ogni livello. Forse intere aree di nevrosi potrebbero essere mappate e sradicate con una terapia di massa».

Nell'altra lettera invece Burroughs lancia un monito a Leary rispetto alla pericolosità della N-dimetiltrptammina raccontando una sua esperienza poco piacevole con la sostanza, testimoniando ancora una comunanza di intenti con lo psicologo, anche se questa situazione cambierà molto velocemente. In una lettera da casa di Leary a Paul Bowles scrive di vedere attorno a sé quanto di più «orrido» la società americana potesse offrire in termini di accumulo («Sto a casa di Leary. Abbastanza cibo da sfamare un reggimento lasciato a marcire in quella cucina enorme dai figli ipernutriti e indisciplinati di Leary. Televisori, macchine fotografiche, macchine da scrivere, giocattoli, libri, riviste, mobili inutilizzati impilati fino al soffitto. Un incubo di stupidi eccessi. Questo posto è schifoso schifoso schifoso. E disgustoso»), ma di continuare a sperimentare con lui per motivi economici, mentre in una lettera a Ginsberg (le cui conversazioni con Burroughs sono state recentemente pubblicate con il titolo Non nascondermi la tua pazzia) scrive di aver troncato ogni rapporto con Leary in quanto gli sembra «malintenzionato» e l'aggancio con l'Università di Harvard per le sperimentazioni poco serio. Nonostante questo, anche a smentire un'informazione poco corretta, Burroughs negli anni successivi non mancherà di far sentire la sua vicinanza, anche economica, a Leary quando per esempio sarà arrestato e condannato a trent'anni per possesso di erba («che sentenza barbara. Texas ovviamente», e aggiunge anche: «Molti dei più grandi criminali di guerra hanno avuto sentenze più miti di quella inflitta al dottor Leary, criminali con le mani macchiate dal sangue di migliaia di persone») e più in generale, pur non condividendone i metodi, si rivelerà generoso rispetto alla causa della ricerche sulle droghe portate avanti da Leary.

Le lettere a Capote e Leary sono solo una minima parte di quelle raccolte in questo volume, ma dimostrano bene il valore di queste missive che si prestano a letture di vario livello per le considerazioni letterarie contenute, per le confessioni personali o per le narrazioni che fanno talvolta capolino diventando improvvisi epifenomeni della sua opera. Da questo libro emerge anche quello «Spirito del Male» che Burroughs aveva sin dall'infanzia cercato di esorcizzare (come in occasione della cerimonia per la purificazione dello spirito del 1992 con lo sciamano Betsellie in compagnia, tra gli altri, di Allen Ginsberg) e fanno capolino altresì i demoni e gli elementi magici del reale che costituiscono luogo imprescindibile della sua opera, fantasmi che nel corso della sua vita ha sempre cercato di affrontare: «Certo – disse in un'intervista nel 1990 – che credo nell’universo magico, dove non succede nulla a meno che uno non lo voglia, e quel che vediamo non è un solo dio ma tanti dei che si avvicendano nel dominio e nella lotta».

Chiude questo volume un saggio di Ottavio Fatica, Postazione atrofizzata, dove il traduttore elenca e studia alcune «schegge del suo nerissimo humour vitreo, e altre ferite», ma soprattutto mette in luce, con uno stile che costeggia la pagina burroughsiana, l'importanza centrale di Burroughs all'interno della letteratura americana e dentro la Beat Generation: «Le migliori menti della sua generazione, mai slogan più infondato di questo di Ginsberg, erano una cabaletta di velleitari un po’ svitati, un paio dei quali dotati di talento, circuiti da un démi-monde di delinquentelli esotici. Il tempo di conoscerlo e fecero di Burroughs il loro guru». Continua Fatica raccontando i caratteri estetici peculiari che conquistarono gli scrittori Beat («Lo trovavano così inglese, con le sigarette Senior Service e quei modi antiquati. Alto, allampanato, il profilo aquilino, le labbra sottili, i lunghi silenzi – il paragone con Sherlock Holmes risaliva al 1944, quando lo conobbero. Tutti e due s’iniettavano cocaina, giravano armati, con tanto di bastone, tenevano costosi album, erano maestri nel travestimento e più o meno immuni al fascino femminile») e sottolineando il valore di questa esperienza letteraria complessa, non semplice e talvolta respingente, di questa vita al limite («infinitely wrong, non long») tra la persecuzione e il delirio sfrenato che queste lettere riescono a rendere come nessuna biografia avrebbe mai potuto fare.

E anche nelle modalità di sepoltura, a seguito della morte avvenuta nell'agosto del 1997 a Lawrence dopo un infarto («Back in no time» le sue ultime parole), segnata anche dalla sofferenza per la morte del suo amato gatto come ricorda Paul Bowles («Soffriva più di quanto avrebbe fatto se fosse morto un uomo. Fu come se la morte di un gatto gli avesse ricordato le morti di tutte le persone che aveva amato»), nell'ultima apparizione pubblica di Burroughs lo spettacolo definitivo di questo imprendibile dandy fu, per un'ultima volta, allestito: «per la sepoltura lo vestirono di tutto punto, con gli occhiali nel taschino e una penna stilografica nella tasca interna. Più una moneta da cinque dollari in oro dell’Ottocento, tre spinelli e un sacchetto di eroina. Sul bavero la rosetta di Commandeur des Arts et des Lettres e quella dell’American Academy of Arts and Letters. Il fedora grigio. Al fianco il bastone con la lama incorporata e la 38 speciale a canna corta, con cinque colpi, quella che teneva sotto il cuscino di notte».

Il mio passato è un fiume malvagio. Lettere 1946-1973 di William S. Burroughs

Le lettere di questo stupefacente epistolario sono in gran parte indirizzate ad Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Paul Bowles e pochi altri, uniti dalla convinzione di essere destinati a qualcosa di grandioso, e guidati dallo stesso Burroughs, guru sui generis e artefice di un «lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi»

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Il gatto in noi di William Burroughs

Sarà probabilmente una sorpresa per molti scoprire che William Burroughs, l’efferato cantore di saghe che si svolgono in terre di mutanti e in cui l’umanità è una sopravvivenza arcaica, ha anche scritto uno dei più delicati e percettivi libretti che conosciamo sui gatti – anzi, più precisamente, sul gatto come «compagno psichico».

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Pasto nudo di William Burroughs


Con questo romanzo, ebbe a dire Norman Mailer, William Burroughs rivelò di essere «l’unico romanziere americano vivente a cui si possa plausibilmente attribuire genio». Scavando nelle proprie ferite con l’acume della paranoia e un’acrobatica inventiva stilistica, in "Pasto nudo" Burroughs disegna, sfrontato e perentorio, un ritratto dell’America all’acido fenico.

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Matteo Moca, dottore di ricerca in Italianistica, è insegnante e critico letterario. Ha pubblicato la monografia, Tra parola e silenzio. Landolfi, Perec, Beckett (La scuola di Pitagora, 2017) e ha curato Madonna di fuoco e Madonna di neve di Giovanni Faldella (Quodlibet, 2019). Si occupa in particolare dell'opera di Tommaso Landolfi, e, tra gli altri, di Elsa Morante, Anna Maria Ortese e Georges Perec, oltre che delle convergenze tra letteratura e scienze umane. Scrive di letteratura contemporanea su quotidiani e riviste.



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